PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
Libra Linnaeus
Il nome era uscito da un volo parallelo all’acqua dello stagno dove Carl Nilsson Linnaeus la notò per la prima volta.
Un volo nervoso, fatto di schemi reattivi all’aria, quando questa si ferma sopra le cose senza muovere nulla. Aveva i modi del predatore e la ricercatezza d’un monile prezioso. La testa sembrava una piccola sfera di crisopazio, il corpo un diaspro. Il suo addome invece era lungo e sottile, simile ad un ago crinale elegante, o ad uno yad raffinato. Era repentina, era scattante, non era mai prevedibile, agiva secondo una legge sconosciuta ad ogni altra creatura alata. Nemmeno le macchine volanti degli uomini, un giorno, avrebbero potuto tanto; le avremmo viste rollare e cabrare al contempo, nell’atto della virata, tracciando un arco morbido che solo per noi è armonia. Lei no; procedeva secondo geometrie complesse, così vicina all’acqua da incresparla, quando si soffermava, così orizzontale al mondo e puntuale al tempo illuminista di Carl Nilsson, che lui stesso ne fu stupito. La definì senza incertezze: Libellula, come la piccola bilancia degli speziali, o degli orafi, gelosi del più vano pulviscolo. Libellula aveva ali fatte d’esattezza, trasparenti e velate d’ambra, con arabeschi incisi a punta di pennino, silenziose in volo come quelle di una morte efficiente e discreta. Ogni volta che tornò allo stagno, Linneo la rivide là, forte, rapida, generosa, procedere con la sua gnosi di stimoli convulsi tra l’aria, l’acqua e i canneti. Quando il primo stormo di rondini sfiorò lo specchio d’acqua per dissetarsi, Libellula capì che era arrivato il tempo di essere preda. All’amico, però, avrebbe lasciato neanidi dalle sorprendenti metamorfosi crescere fino a diventare ninfe, infine uscire dall’acqua, adulte, vestite d’una bellezza definitiva e acquiescenti alla follia del creatore. P.B. |
LIBRA LINNAEUS (2010) |
Ardea Purpurea
Credo che di notte tutte le stelle del cielo si diano convegno sopra Agadir.
In un’oasi fuori la città santa di Fés ho temuto cani e sciacalli. Nella valle fluviale del Cheliff c’è un canneto che le femmine Ardeidi amano per i suoi inverni lenti e senza troppe insidie. Tempo fa un Airone Rosso fuggito alle guerre del Tigri giunse fino a noi per descriverci la dolcezza dell’acqua in cui si rispecchiano eleganti i due minareti della moschea di Zagaziq, così lo seguimmo sul delta del Nilo. In quelle regioni gli uomini del passato ci hanno amati. Ho visto uno di noi scolpito nella pietra di una tomba reale, a Tanis. Un altro ornava un coccio d’anfora della Casa di Chefren, a Bubastis. La gente di Damanhur sostiene che la prima Fenice avesse sembianze di Airone, non d’Aquila. Lo stesso dicono sulla costa, da Rosetta a Damietta, dove i Cenerini e gli Ibis orlano le sponde. Ho vissuto la mia più furente passione d’amore sulle rive del Timsah dalle acque salmastre, vicino ad Ismailia, prima di emigrare a nord. La più furente e l’unica; abbiamo avuto figli alla foce del Po di Volano, dove il pesce è grasso e i canneti sono più impenetrabili. Quando sono stati grandi abbiamo volato insieme fino ai plaur del Danubio. Sono rimasto là una sola estate. La mia storia si muove di delta in delta e le mie ali attraversano ancora il mare. Vorrei tornare con la mia compagna ad Agadir, prima che l’inverno e gli anni ci spingano più a sud. Vorrei che in uno qualunque di quei cieli notturni vedesse la costellazione dalla quale scendemmo, quando eravamo déi. Alle foci del Niger, infine, troveremo la soglia da cui risalire. P.B. |
ARDEA PURPUREA LINNAEUS (2010)
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Navetta interstellare P.U.
Quello su cui navigo è il mio stesso pensiero. Il mio pensiero ha una carlinga sottile fatta per frangere il vuoto. Sono l’avanguardia del sogno che compio ogni notte e che non si è ancora concluso. Terra è tanto vicina a me, quanto più i propulsori della mia mente spingono questa nave lontano. Ho lasciato al telescopio di Edwin Hubble le chiavi del mio itinerario e sento la costanza del suo occhio paziente in coda. Porto sul petto una rosa di venti astrali e ho nel cuore la grande stella rossa di Betelgeuse, seconda soltanto a Rigel nel sistema di Orione. Avverto le magnitudini dell’intera costellazione come lumi che penetrano un’oscurità infinita. I filosofi e i mistici la chiamano ricerca. Io mi limito a pensarla come una nuova patria, dove le bandiere bruciano prima di essere alzate. Seicento anni luce non mi fanno paura, se là, dove vado, incontrerò una stella mille volte più grande del mio Sole. Betelgeuse è la spalla del Gigante e il gigante è Orione, il Cacciatore, quello che innamorò Artemide e che da Lei si lasciò annientare. Così, nel frattempo, imparo a conoscere la falsità del Fato e porto sopra l’equatore celeste quanto di meglio ho ereditato in terra: una storia d’amore incompiuta. Non c’è altro da lasciare laggiù. L’eroe triste che Zeus ha vestito di stelle ha tre sfere di luce alla cintura e altre nove per guardare il cielo. Sulla sua spalla sinistra sta Bellatrix, stella guerriera. Con Lei conoscerò Mintaka, Alnilam, Alnitak, Saiph, Meissa e la splendida Rigel. Infine conoscerò di me quella parte più buia che un giorno mi permetterà di ritornare in Terra.
P.B. |
SHUTTLE P.U. (2011)
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