PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
Gaspare (1943 - 2022)
In cinquant’anni compiuti di amicizia conservo di Gaspare una notevole quantità di ricordi, per certa parte non proprio ordinati secondo una sequenza cronologica, ma pur sempre rintracciabili negli archivi della memoria e sufficientemente nitidi.
Di tutti, il più materico è quello che mi accade di vedere non poche volte al giorno, un dipinto a olio su tavola preparata in foglia d’oro del 1975, dal titolo “Il sogno del pastore”.
Glielo comprò mio padre quell’anno stesso, o forse il successivo, sicché l’opera fu esposta una sola volta nella galleria personale di Gaspare, l’angiporto di Vicolo del Prezzemolo che conduceva alla Grotta di Franco Bettoni, la madre di tutte le osterie.
Lo aveva ispirato il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia in un periodo in cui condivideva del grande poeta di Recanati, però in un modo tutto suo, un certo pessimismo mistico, più che cosmico, dal cui giudizio anche la Provvidenza non ne usciva mai molto dritta.
Qui, nell’opera citata, il nomade chirghiso era il pittore stesso, l’amico Gaspare errante, quando le ferie glielo concedevano, in un’asia a misura sua, verde, sinuosa e lieve come la bella e amata Umbria, là dove cercava con la passione dell’artista e dell’iniziato di ripercorrere, sempre a modo suo, la difficile Via di Francesco.
Il canto leopardiano alla luna gli era rimasto in petto, presumibilmente, sin dall’anno di maturità all’istituto tecnico industriale; appartengono infatti agli anni ’60 una piccola tela a olio e alcuni disegni di studio in cui sono graficamente descritte e approfondite figure molto simili a quelle, ormai definitive, presenti nel Sogno del pastore.
Quest’opera è dunque il compendio di una lunga ricerca, nella quale confluiscono, trovando pace e sintesi, suggestioni personali, interpretazioni, lezioni di letteratura, di storia e di religione, o forse sarebbe più appropriato dire di teologia percettiva, che tutto sommato è il metodo più individuale e diretto di conoscere o disconoscere Dio senza disturbare i Maestri.
La stesura dell’oro in foglia lo fece dannare. Puntiglioso, perfezionista, pignolo, estremamente paziente, esigeva il massimo da sé stesso e non si accontentava di un risultato mediocre. Se anche fosse stato invisibile agli occhi del più attento osservatore, un difetto visibile ai suoi non poteva passare per alcun motivo. La tavola doveva essere liscia e pulita come una lastra di cristallo, la colla di pesce andava mantenuta a una precisa temperatura e avere un’altrettanto precisa consistenza, ed era basilare che la foglia d’oro venisse distesa con estrema cautela, data la sua fragilità, quindi fatta aderire alla perfezione e lisciata esclusivamente per mezzo della pietra d’agata e di nient’altro.
Per quanto avesse rispettato tutte le regole ora menzionate, rifece il fondo tre volte. Dopo il secondo tentativo non andato come avrebbe voluto, venne alla Grotta intorno alle sette di sera, ora canonica di aperitivi pressoché interminabili, con un’espressione torva in viso e un sentimento di vendetta contro il mondo, che alla fine era solo la conseguenza di un suo senso di frustrazione travisato. Mi raccontò per filo e per segno i passaggi e gli incidenti tecnici in cui era incorso, non risparmiò sé stesso quanto a insulti, un’autocritica severa e quanto mai eccessiva, ma non risparmiò nemmeno la stirpe del pesce che aveva fornito la colla, la scarsa compattezza della silice nel calcedonio in questione e l’albero maledetto da cui proveniva la tavola ostile.
Accompagnò il malumore con diversi calici di quel bianco tagliato e proletario che costava poco e andava bene a tutti, così alla fine riuscì a litigare due volte di seguito con due persone diverse che stanno ancora chiedendosi con chi mai ce l’avesse.
Insieme alla straordinaria manualità e all’ottimo intuito, Gaspare aveva comunque l’umiltà di capire che per certi mestieri era necessaria una guida, sicché per qualche giorno, dopo il lavoro, andò a bottega presso un doratore suo conoscente, che aveva il laboratorio in una piazzetta della città antica e lavorava molto per la diocesi bresciana, candelabri, soase, gessi, stucchi, sculture lignee, madonne, putti, angioletti, profeti, patriarchi, apostoli, santi, beati, un papa e qualche vescovo. Apprese quanto gli era necessario apprendere e alla fine completò la preparazione del fondo per Il sogno del pastore.
Nel frattempo aveva eseguito con estrema accuratezza il disegno dell’opera sulla carta da lucido, la cui funzione sacrificale era quella di trasferire per incisione sulla superficie definitiva tutta la parte al tratto.
Compiuto anche quell’ultimo passaggio poté finalmente iniziare a dipingere il suo Sogno.
Un sogno quieto, pieno di garbo, i cui attori stanno immobili in posizioni di estrema compostezza formale ed estetica. Tutt’oggi l’immagine d’insieme mi fa pensare alla scena d’inizio di un primo atto sulla quale all’improvviso sia stato diffuso un effetto di luce ancora contenuta e tenue.
A spegnersi lentamente è invece il tramonto lungo la linea d’orizzonte di un deserto dorato, oltre il quale, di qui, verso noi che siamo esterni al dipinto e lo guardiamo, ritornano quei moduli a lui cari, che ancora una volta sono le sue colline umbro-surreali, tondeggianti, sensuali, perfette come seni adolescenti. Sono verdi ed erbose, con pochi alberi solitari, cipressi e qualche pino domestico che si apre a ombrello. S’insinuano garbatamente, ma come un cuneo, tra due territori più aridi.
Tutto è avvolto in uno stato di sopore, ad eccezione della figura sacerdotale, aria da elamita e occhi spalancati che mi ricordano quelli altrettanto grandi e imbambolati di certe figure femminili in Paul Delvaux. Di fianco al sacerdote si erge più possente una deità ornitocefala. Il cielo è attraversato da un grande pesce, l’unico simbolo di cristianità: ha un’aria mite e, forse, si porterà via la luna. In primo piano, seduto sopra un ceppo, c’è il pastore sognante; con un braccio regge la propria testa e con l’altro avvolge in un gesto protettivo un pavone che dorme sul suo grembo. Ai loro piedi un esiguo gregge riposa, in un dormiveglia più vigile. Chi invece non dorme per niente è un rettile, iguana, ramarro, piccolo drago, che parrebbe attardarsi all’ultima luce del tramonto. Probabile che per lui sia soltanto l’inizio di una lunga notte.
C’è molta pace in quest’opera, i canti malinconici alla Luna dei pastori nomadi chirghisi non si avvertono, anche Leopardi è lontano. Le figure del culto, qualunque sia, hanno già l’attenzione altrove, stanno sospese al di sopra del suolo e non lo guardano, semmai lo lasciano. La loro dipartita è una rassicurante brezza di libertà che si diffonde nel sogno.
Credo che fossero pace e libertà, essenzialmente pace e libertà, le più vaghe e divine tra le utopie, ciò che il mio amico andava cercando a quel tempo e in questo Sogno. Nient’altro che pace e libertà. Eirene ed Eleutheria insieme, o ancor di più la poliedrica Ecate, una volta per tutte e per sempre.
La lunga stagione della soffitta in via Vittorio Emanuele II volgeva al termine. Lassù Gaspare aveva prodotto tanto, e non solo in pittura. Aveva costruito il suo cavallo di cuoio, forte, mansueto, ospitale, ben piantato sulle quattro zampe, la groppa larga e dura come quella di una bestia da lavoro (Fig. x). Ed era paziente, quel cavallo, perché ci si saliva in due, ci si stanziava, ci si scopava, ci si poteva passare una serata intera se le poche sedie erano già occupate, le volte in cui ci trovavamo là tutti insieme, quando si svolgeva per naturale consuetudine quel rituale pagano in cui si spartivano il fumo, il vino e qualche altra delizia di quei tempi.
Credo che si fosse tra il ’73 e il ‘74: Gaspare stava insieme a Liliane, che veniva da Parigi e viveva con me e con altri amici nella Comune di via Malvezzi (Figg. xxxx). Impiegò due anni per realizzare un liuto d’incredibile bellezza, rigoroso nella fedeltà ai materiali primari e ricco di particolari preziosissimi, come le opere di cesello, a chiudere i quattro fori della cassa armonica, che evocano i rosoni di chiese gotico rinascimentali splendidamente reinterpretati (Fig. x)
Quelli erano i momenti in cui Gaspare stava meglio, quando il lavoro richiedeva un’attenzione estrema e la pazienza di cento cluniacensi; l’atto di miniare, il cesello, la punta di pennello triplo zero, la mano ferma e sicura che tiene un bulino tagliente con confidenza, con leggerezza, come fosse il gambo di un fiore da non lasciar cadere e da non spezzare. Poi le pupille che vanno a fuoco, si fissano su di un punto e non lo lasciano più. La mano, quindi, e la punta dello strumento di lavoro, gli occhi fissi, la concentrazione ti trascinano là dentro, ti ci trasportano con tutta la tua coscienza, così che diventi in pochi istanti quella cosa stessa, all’estremo margine di un microcosmo impenetrabile che ti contiene e che ti protegge da ogni insidia, perché niente e nessun altro ti può seguire in un laggiù così privato e profondo.
Ecco: quelli erano i momenti in cui Gaspare stava bene, e più duravano, meglio era. Non sentiva il bisogno di alcunché, nemmeno del vino. Però non potevano durare in eterno. C’era il suo lavoro di perito tecnico all’Enel, che gli garantiva la sopravvivenza e gli permetteva di aiutare la madre anziana, ma che odiava profondamente, senza mezze misure: era il suo Bagne de Cayenne esistenziale, quarant’anni di lavori forzati retribuiti da scontare fino all’ultimo giorno. Poi c’era tutto il resto: gli amici, gli affetti, gli scopi mancati, i conflitti, le cose irrisolte, l’amore.
Insomma, la questione è nota, ed è che quando il vino diventa il nostro nemico fraterno i guai peggiori hanno inizio. Sicché accadeva sempre più spesso che durante certe serate in compagnia, in cui la spensieratezza, la condivisione e l’allegria coralmente invitavano ad essere bagnate, una improvvisa fiammella desse fuoco a una miccia, e guarda caso dietro a quella fiammella c’era sempre l’amico Gaspare con le sue prese di posizione, con i suoi princìpi inoppugnabili. Così ci si ritrovava di punto in bianco a scazzottare e non era il caso di chiedersi perché, o cercare di capire da che parte stessero la ragione e il torto: il solo scopo era quello di tirarlo fuori dai guai, e anche alla svelta.
Smaltiti l’alcool e l’adrenalina Gaspare ripercorreva l’accaduto, riconosceva le sue responsabilità e ne soffriva, talvolta fino alle lacrime. In lui cresceva a tal punto il senso di colpa, durante una notte quasi insonne, che il giorno dopo era capace di ritornare sul luogo della lite e di scusarsi, riuscendo il più delle volte a stringere un’amicizia o a ricucirla.
Questi incidenti accadevano con relativa frequenza e comunque capitavano più spesso in provincia che non in città, quando si andava alla ricerca di qualche vecchia osteria, di qualche “licenzino” abusivo nelle Valli bresciane o bergamasche, dove il sangue è più caldo e forse il lavoro è più duro.
Soffriva immensamente per il fatto di non potersi dedicare all’arte tutti i giorni e a tempo pieno, soffriva se stava lontano dai suoi strumenti di lavoro o, peggio, dalle tele iniziate e sospese per forza maggiore, che stavano là ad aspettarlo in uno stato d’incompletezza insopportabile. Ne sentiva il lamento e loro sentivano il suo.
Gaspare a quel tempo leggeva abbastanza poco, fors’anche per il fatto che una volta uscito dal lavoro all’Enel si rifugiava nella sua soffitta e si rimetteva all’opera.
L’esecuzione di ogni dipinto era lenta e meticolosa. Impiegava dai tre ai sei mesi per portare a termine un soggetto, e questo aumentava le sue ansie, inevitabilmente. Perché tante altre idee, tanti altri progetti crescevano nel frattempo e si accalcavano nella sua testa, lo incalzavano, lo pressavano da ogni lato, diventavano prepotenti e non era semplice tenere a bada tutta quell’energia.
Leggeva abbastanza poco, dicevo, che non significa non leggere per niente. In realtà aveva le sue passioni letterarie, i suoi libri più amati. Vorrei ricordarne uno in particolare, perché diventò e restò per molto tempo il suo primo vangelo, un romanzo che Gaspare, sul finire degli anni ’60, lesse e rilesse sette volte, tanto l’amò, tanto entrò nelle pagine e fra le righe, tanto s’immedesimò nel protagonista e si lasciò irretire nelle trame avvolgenti di una storia senza dubbio affascinante e potente.
Il romanzo era La luna e sei soldi, scritto da William Somerset Maugham nel 1919. Nella storia del suo protagonista, Charles Strickland, agente di cambio che a quarant’anni lascia moglie, figli, lavoro, per iniziare l’avventura dell’arte, da Parigi a Tahiti, è riconoscibile la vita di Paul Gauguin, liberamente rivisitata dallo scrittore britannico.
Ciò che Maugham riesce a trasmettere con la maestria del grande romanziere è la potenza attrattiva e demoniaca dell’arte, la sua forza di possessione, la malìa di cui è capace, che può indurre a scelte crudeli e dolorose, che può condurre alla follia.
Non è possibile opporsi al demone dell’arte: quando ci occupa e ci possiede, l’anima è già perduta. A quel punto, o lo si asseconda o si muore.
Travolgenti e dannate, le pagine di epilogo raccontano di un uomo ammalato, ormai prossimo alla fine, reso cieco dalla sifilide, che sulle quattro pareti di fango della sua capanna dipinge un affresco d’indescrivibile bellezza, la sua opera più grande, che a nessuno sarà dato vedere dacché brucerà insieme al suo autore nel rogo infernale di quell’umile dimora.
Così almeno mi pare di ricordare, e poiché su indicazione di Gaspare lessi La luna e sei soldi a vent’anni e una volta sola, posseduto anch’io dallo stesso demone, non vorrei avere travisato a distanza di mezzo secolo il racconto di un maestro travisatore.
Sono abbastanza convinto, comunque, che per una personalità complessa come quella di Gaspare, costellata di fragilità, di punti di rottura, con non pochi spigoli, e non di meno per la sua connaturata sensibilità surrealista, disposta a rendere vero l’inverosimile, quel libro fosse stato al tempo stesso rivelazione e flagello: gli aveva mostrato chi era. “Per speculum et in aenigmate” avrebbe precisato Paolo di Tarso.
Gaspare, insomma, nel romanzo di Somerset Maugham ci si era riflesso e si era riconosciuto. Sentiva il demone dentro di sé, più s’illudeva di riuscire ad addomesticarlo, più quello gli dava dolorose lezioni d’incompatibilità, d’intolleranza, mostrandogli l’abisso tra i due mondi che Gaspare si sforzava di far convivere, per obbligo, per necessità, non certo perché fosse convinto che una possibilità esistesse.
In quelle circostanze, avrebbe voluto chiedere al vino d’intorpidirgli la mente, di addormentare il demone per qualche ora, di avere un po’ di tregua per sé, niente di più, ma anche il vino oramai lo tradiva con una metodicità crudele e progressiva.
All’interno dell’ente nazionale per l’energia elettrica di Brescia s’impegnò sempre e con tutte le sue forze a non fare carriera.
In un cassetto intermedio della sua scrivania, nell’ufficio in cui lavorava, aveva ricavato il suo atelier a scomparsa. Lo apriva e d’incanto un cavalletto da tavolo già dotato di tela o di un cartone telato, piccole misure, si alzava fino a raggiungere una posizione obliqua stabilita, in modo che il punto d’osservazione di Gaspare fosse perpendicolare alla superficie da dipingere. Intorno, in spazi delimitati e a incastro, erano riposti con ordine i tubetti di colori a olio della Winsor & Newton, che a quel tempo erano i suoi preferiti, i pennelli, gli stracci ripiegati con cura, le spatoline per impastare l’olio al colore, boccettine chiuse con i tappi a vite e guarnizione in cui stavano l’olio di lino, l’essenza di trementina, l’acquaragia; un marchingegno dei suoi, che aveva richiesto tempo e un impegno non da poco, con prove, modifiche, qualche rischio e molta tensione. Ma alla fine ne era venuto fuori qualcosa di preciso, funzionale, efficiente, pura meccanica e praticità, costruito a misura di quel cassetto. E questo era il punto debole; se avesse fatto un piccolo scatto in avanti, nella carriera, avrebbe dovuto cambiare ufficio e la sua vecchia scrivania non avrebbe potuto seguirlo nei nuovi ambienti.
A scomparsa, sì, ma non segreto. Gaspare si sentiva circondato da nemici e probabilmente qualcuno l’aveva davvero. Niente di più facile, peraltro, che il suo capo ufficio, alla necessità, lo minacciasse proprio con una promessa di promozione.
Però, quel sottobosco impiegatizio così meschino, e cinico, e sleale, quel mondo piccolo borghese simbolicamente a metà tra il ragionier Fantozzi interpretato dall’impareggiabile Paolo Villaggio per la regia di Luciano Salce e il signor Bristow dell’ufficio acquisti ideato da Frank Dickens, non era sempre l’uno e non era sempre l’altro. In mezzo a qualche probabile nemico Gaspare aveva anche amici silenziosi e discreti che senza dare tanto nell’occhio lo proteggevano. A partire forse da chi gli stava più vicino, perché non è indispensabile essere pittori navigati per distinguere l’odore della trementina da quello del dopobarba, che Gaspare nemmeno usava.
Detto in parole povere: non era per niente difficile volergli bene.
È un peccato che di quella scrivania e di quel suo cassetto magico non ci siano testimonianze fotografiche; avrebbero meritato di essere qui, come opere in mezzo alle altre sue opere.
La meccanica delle aperture magiche e delle genialate semplici ma sorprendenti era suo dominio. Come la tenda canadese, che aveva adattato al portapacchi della sua Volkswagen Maggiolino color Nord Atlantico in un giorno senza sole, la quale si apriva, si tendeva e si bloccava tutta da sola nel momento in cui, da sotto la sua base, si sfilava e si poggiava a terra la scaletta in alluminio che serviva per salirci. Tutto in un solo gesto e con una sola mano, senza sforzo alcuno. Tutto animato. Tutto semplice e sorprendente. Il surrealismo che Gaspare sapeva applicare alla realtà.
In quegli anni non esistevano cose del genere sul mercato. Sicuramente esistevano per certi fuoristrada di lusso, per le Land Rover da safari, per le jeep e i camper delle troupe televisive in missione al Borneo o in Amazzonia, ma per le utilitarie, per le Cinquecento, le Errequattro, le Diane, le Duecivì e i Maggiolini, le auto di noi mortali, giovani e squattrinati hippies dal sacco a pelo facile, non c’era proprio niente di simile.
Gli fosse venuto in mente di brevettarla? Gaspare voleva solo evitare di buttare via un vecchio portapacchi e cercava la soluzione migliore per non dover montare e smontare ogni volta la tenda, per non andarla a piantare nel campo di qualcuno e farsi cacciare via in malo modo, per potersi fermare su uno spiazzo, in uno slargo, sulla riva di un fiume, sulla sponda dell’Aiso, ovunque fosse possibile e ovunque ne valesse la pena, durante i suoi viaggi solitari in Umbria.
Qualche volta, nelle notti d’estate, salivamo in Maddalena e a mezzo monte, lasciata la strada principale per una stradina sterrata, raggiungevamo sul versante sud una piccola piana nascosta oltre la vegetazione, una specie di cengia a bassa quota, di terrazza al di là della quale il fianco della nostra montagna di casa scendeva ripido fino alle prime abitazioni, di fronte alla Wührer di viale Bornata. A quel tempo dietro alla fabbrica di birra non c’erano che campi. Le luci dei lampioni della Bornata e di viale Piave si congiungevano a quelle di via Mantova, poi continuavano con una curva lunga e morbida fino a San Polo. Ma San Polo di oggi non esisteva, e nemmeno San Polino, sicché di notte, viste da lassù, le luci lontane di quei lampioni sembravano costeggiare un ampio golfo e le poche luci fioche provenienti da qualche cascina isolata in mezzo ai campi davano l’impressione di essere lampare. Entrati in retromarcia sul piccolo pianoro sospeso nel vuoto, aprivamo la canadese, due posti comodi, già munita di un morbido materassino in gommapiuma, e con la testa fuori dalla sua apertura triangolare contemplavamo un mare notturno tra i più belli, ancorché inesistente. Era come guardare il Golfo di Napoli dal versante nord del Vesuvio, ma senza ansie pompeiane alle spalle. Poteva accadere che ci facessimo un ultimo joint, poi chiacchieravamo, scherzavamo e ridevamo finché il sonno non ci spegneva le luci. Al mattino si tornava giù, Gaspare andava al lavoro e io al mio studio, dove il più delle volte mi rimettevo a dormire.
Tornando invece all’indimenticabile astroporto che era la Grotta di quegli anni, per un po’ di tempo non si fece vedere. Poteva anche essere un buon segno, dopotutto.
Riapparve quasi per caso e mi disse che a volte, dopo cena, preferiva andare all’Antico Inferno, perché era un po’ più tranquillo, e che la tranquillità era tutto ciò di cui aveva bisogno in quel periodo. Però gli avrebbe fatto piacere se qualche volta fossimo andati là anche noi, intendendo con quel noi dire me, gli amici di sempre, le nostre compagne.
L’Antico Inferno si trovava in Corso Cavour, di fianco al tribunale, a cento metri scarsi dalla Grotta. Ci andavo a cena abbastanza di frequente con Lucia, la ragazza con cui stavo allora, e talvolta anche a pranzo con qualche amico. Era una trattoria carina, due sale e un piccolo cortile interno, si mangiava bene e i prezzi erano molto contenuti. I proprietari, Silvio e sua moglie Bruna, erano persone gentili: inoltre la signora Valzelli cucinava piuttosto bene. Di sera davano una mano anche i loro figli più grandi, Susanna e Mirko.
Così cominciammo a frequentare l’Inferno un po’ più spesso, anche dopo cena, e ci parve subito abbastanza chiaro che l’attenzione dell’amico Gaspare, più che sui nostri discorsi, andasse a finire regolarmente su Susanna.
Non molto tempo dopo mi confidò in gran segreto di essersene proprio innamorato. Come se non se ne fosse accorto nessuno. Bella e dolcissima, i lunghi capelli castano chiari, lisci e luminosi, fini come la seta, separati da una sottilissima e perfetta riga nel mezzo… Ovvio, che se ne fosse innamorato: in tutta Brescia non c’era in quel momento una creatura più rinascimentale di lei. Susanna era una Dama senza ermellino, era una Monna Lisa dal sorriso molto più dolce e senza grandi sforzi più triste, un sorriso delizioso e gentile, non privo anch’esso d’un suo enigma.
Solo che a quell’età, oscillante tra i venti e i trent’anni, poco più, poco meno, eravamo tutti talmente compresi nel vivere quanta più vita possibile, se mai fosse stata un soffio, che ci si poteva non fare caso. Invece l’enigma senza mostrarsi affiorava, talvolta, e stava lì, presente e appartato, sempre un po’ fuori fuoco, quando Susanna era dietro al banco del bar, rispetto alla piccola sala anteriore che dava su Corso Cavour.
L’enigma affiorava, dicevo, da un sorriso capace di stare immerso in un suo silenzio privato anche nei momenti in cui il vociare degli avventori bruciava i decibel.
Susanna era tutto questo e forse era anche di più.
Per estensione temporale, era la Beatrice Portinari di Dante, la Laura de Noves del Petrarca, era la Fornarina di Raffaello Sanzio, era Lizzie Siddal, Effie Gray, Annie Miller, Fanny Cornforth, era tutta la sorellanza preraffaellita in un solo corpo, era la Musa di Gaspare e la sola donna che avrebbe potuto sposare.
Infatti lo fece.
Dalla loro unione nacque Valentino, nell’aprile del 1979. Abbastanza comprensibilmente ci perdemmo di vista. D’altra parte anche nella mia vita, nel frattempo, molte cose erano cambiate e molte altre stavano cambiando.
Gaspare a quel punto fece una scelta coraggiosa che taluni nostri amici, purtroppo, non trovarono mai la forza di fare: si affidò agli Alcolisti Anonimi e a botte di battaglie alterne vinse la guerra.
Dagli Alcolisti Anonimi non si staccò più fino alla fine dei suoi giorni, forse non più per bisogno, ma perché era scesa su di lui una solitudine greve, specialmente negli ultimi tempi.
Ecco, apro e chiudo quanto dico nel brevissimo spazio di due parentesi virtuali: so che in quelle battaglie né si cade né ci si rialza da soli, che certi fendenti e certe ferite colpiscono duro anche chi è più vicino, ma va riconosciuta a Gaspare una volontà di ferro e l’umiltà, rara in questi casi, di avere saputo chiedere aiuto.
Alle mie mostre, comunque, veniva sempre: quelle bresciane, quantomeno. Erano occasioni per rivederci e per aggiornarci mutualmente sulle vicende dell’uno e dell’altro.
Tornò invece a farsi vivo con più frequenza dopo essere andato in pensione. La sua Cayenna era finita e Gaspare, finalmente, poteva ricominciare una seconda vita nell’arte.
L’opera più grande, però, era Valentino. Ne parlava con orgoglio, ne andava fiero.
Talvolta, nel raccontare di suo figlio, senza rendersene conto si lasciava trascinare dall’emotività, dall’entusiasmo, al punto che quasi sembrava averlo fatto lui, quel ragazzo, tutto da solo, più o meno come il liuto, di averlo modellato e creato con le proprie mani, magari dall’argilla, per citare il materiale prediletto di un altro artigiano di notevole fantasia, l’indiscusso fondatore dello sperimentalismo.
Conoscevo Gaspare a sufficienza per non nutrire alcun dubbio sul fatto che, con tutto l’amore paterno, con la più sincera buona fede e nella convinzione di agire per il solo bene del suo unigenito, avrebbe quantomeno tentato di plasmarne il carattere, di trasmettergli tutto il sapere della sua esperienza umana; a immagine e somiglianza, aggiungerei con tutto l’affetto per il mio amico, di un ideale Sé per mille motivi mai raggiunto, che però gli restava incollato addosso come la corteccia cerebrale al telencefalo.
Quello che Gaspare sembrava non calcolare era che il figlio potesse avere preso qualcosa dal padre, quanto a caparbietà e testardaggine. E a proposito di corteccia cerebrale, che dovrebbe essere la sede della memoria, anche in tal senso Valentino era messo piuttosto bene: amava lo studio e apprendeva con una facilità sorprendente, aveva frequentato il liceo classico con risultati alti e l’aveva concluso con una maturità esemplare. Inoltre, aveva idee molto chiare sul suo futuro.
Ho conosciuto di persona Valentino soltanto nel dicembre del 2003, quando Gaspare fece la sua ultima mostra personale in Vicolo del Prezzemolo. Era già alla fine del suo percorso universitario e si sarebbe laureato in Archeologia pochi mesi dopo, nel giugno del 2004. Il padre era al settimo cielo, quello originale, il cielo saturnino degli spiriti contemplanti.
In seguito nacquero tra loro delle tensioni che crearono ansie e sofferenza a entrambi.
Valentino si era dedicato alla ricerca, si muoveva bene negli ambienti accademici e aveva spostato la sua vita tra Spagna, Inghilterra e Germania. Inoltre aveva iniziato a firmare col suo nome numerose pubblicazioni. Certo, non era ancora un vero impiego. C’era da correre e da lottare.
Eravamo rimasti in contatto ed era un piacere seguire il suo lavoro. M’inviò per email una sua raccolta di saggi sul culto isiaco, straordinariamente approfondita e rivelatoria. La stampai e me la lessi in una sera; è tuttora nella libreria del mio studio tra altri testi di storia dell’arte. Sapere del suo lavoro e dei suoi progressi mi era utile anche per dimostrare a Gaspare la bontà delle scelte di Valentino, allo scopo di costruirsi la sua carriera e un posto prima o poi sicuro all’interno dell’università. Ovviamente, vivere all’estero aveva i suoi costi. Anche i “master” hanno i loro: perché in questo mondo di lupi d’accademia, spesso una laurea non basta.
Di contro, Gaspare non si spiegava come fosse possibile che con una laurea così prestigiosa Valentino non trovasse un lavoro, una supplenza, qualcosa da cui cominciare.
Amava il fatto che suo figlio fosse archeologo, una facoltà tra le più impegnative, ma l’avrebbe immaginato volentieri discutere in latino e greco antico con una pala in mano, mentre scavava buche intorno a un paio di pietre sospette a cento chilometri di deserto da Nag Hammadi o nel cuore dell’Anatolia, con quarantotto gradi al sole. Cultura e muscoli, insomma. Fango alle ginocchia, polvere negli occhi, scorpioni bianchi, templi e papiri da restituire alla luce. Cose concrete. Che senso aveva laurearsi e poi dover studiare ancora?
- Se fai il ricercatore, devi studiare – gli dicevo – e se fai il ricercatore per tutta la vita, studi per tutta la vita. -
Nel toccare l’argomento riemergevano all’istante i suoi princìpi inoppugnabili, tra i quali troneggiava l’evidente ed ennesima dimostrazione, stavolta sulla sua pelle, se non già sulla pelle della sua pelle, del primato degli studi tecnico scientifici rispetto a quelli umanistici. E quando lo diceva, mi fissava con un’espressione tra compiaciuto e inquisitorio, quasi fosse in attesa di una mia ammissione in tal senso, come a dire – tu non puoi negare che quello che dico è fondato, perché hai fatto il classico e poi hai scelto la via dell’arte. – e siccome la soddisfazione non gliela davo, concludeva dicendo – a che cazzo vi è servito studiare greco e latino? –
Il “vi” era fuori luogo perché c’era e c’è una profonda differenza tra i due casi. Dopo cinque anni di convivenza un po’ turbolenta il greco e io ci siamo lasciati senza troppo rancore, ma con la promessa reciproca di non frequentarci mai più, fin dove fosse stato possibile. Inoltre il classico lo feci perché amavo le sue tre letterature e perché l’accademia d’arte ce l’avevo già in casa.
Valentino il greco lo parla, lo legge, lo scrive; così come il latino e probabilmente qualche altra lingua sepolta da millenni che per lui non è morta.
Da quegli alfabeti e dalle loro grammatiche trae le notizie necessarie al suo lavoro.
Sospetto che ci sia molta più letteratura tra la crosta terrestre e il mantello superiore, che in superficie: letteratura che valga la pena di cercare, soprattutto.
- Tuo figlio è un altro di quei cervelli che per funzionare appieno devono andare all’estero – dicevo a Gaspare. Lui capiva, sorrideva e sentiva aggiungersi un’altra libbra di peso sulla sua solitudine.
Un giorno mi chiese se avevo voglia di scrivere una libera interpretazione de La vetta impossibile, un suo dipinto del ’97 che già conoscevo (Fig. xx). Accettai molto volentieri e la scrissi in forma di “Lettera a Valentino” nella speranza che potesse, anche se di un poco, contribuire a risanare quella lacerazione ancora aperta tra padre e figlio che pareva non rispondere più ad alcun tentativo di sutura. Non servì a niente. La ferita si chiuse da sola quando Valentino portò a casa i primi risultati concreti della sua perseveranza e Gaspare ammise, se non proprio di avere avuto torto, di non avere avuto ragione.
Mantenne segretamente le sue opinioni sull’inutile indispensabilità dei saperi umanistici rispetto a quelli tecnico scientifici. Per contrasto, forse anche lui alla ricerca di un tempo irrimediabilmente perduto, o più probabilmente per avere nuovi pretesti di dialogo con il figlio, si mise a studiare la filosofia.
Mai conosciuto un uomo più coerente con le sue contraddizioni, a parte me.
Sul futuro lavorativo di Valentino ammise di conservare ancora molti dubbi, ma siccome sapeva che suo figlio e io eravamo spesso in contatto, mi pregò di non dirglielo. E così ho fatto, fino all’istante che precede questo.
D’altra parte Gaspare vedeva il mondo attraverso i suoi strumenti, spesso rari e curiosi.
Concepiva il lavoro come ponos. Prima è necessario l’intelletto, per il concepimento e la progettazione di qualcosa, ma poi servono le mani, talvolta i muscoli. Serve la fatica, appunto, e serve la materia, perché un lavoro si deve vedere, si deve toccare, e soprattutto deve servire, deve avere uno scopo e perché no? essere anche utile a qualcuno, una volta ogni tanto. Come il suo cavallo di cuoio, per esempio, sul quale, volendo, si poteva persino fare l’amore.
Ecco, Gaspare era più o meno così, a mio vedere. Aveva una concezione tutta artigianale dell’arte, rigorosamente pittorica, in senso tradizionale, negli strumenti e nel metodo.
Ricordo quanto male ci rimase allorché scoprì che Giuseppe Pellizza da Volpedo aveva fatto uso della fotografia per la realizzazione di certi suoi dipinti. Avrei voluto dirgli che ne avevano fatto uso anche taluni impressionisti, chi un po’ di nascosto, chi abbastanza apertamente e con certa naturalezza, come Edgar Degas, per esempio, che non di rado usava intervenire con il colore direttamente sulla stampa fotografica. Ma mi trattenni, non glielo dissi; gli avrei fatto a pezzi un mondo.
Gaspare: l’arte contemporanea non l’ha nemmeno sfiorato.
Un avulso, un anacronista, uno che risulterebbe anacronistico anche tra gli Anacronisti, che ha dipinto soltanto per sé stesso e per pochi intimi, per i suoi amori, per i suoi affetti e per i suoi amici.
Avevo la sensazione che talvolta le sue tele venissero attraversate da creature fuggite agli appunti di Hieronymus Bosch o di Pieter Bruegel il Vecchio, creature che andavano veloci, si fermavano un po’ sui suoi quadri, riprendevano fiato, e poi via di corsa, verso chissà dove.
Sulla pagina d’apertura del suo sito internet si dichiara pittore surrealista, ed è una definizione senza dubbio corretta, sebbene un po’ troppo generica e riduttiva, nel caso suo. Perché Gaspare era anche un naif raffinato; e un fiammingo, un simbolista, un metafisico sui generis, che della metafisica potrebbe avere risolto il problema centrale proprio in questi giorni.
Era anche un paesaggista, un miniaturista, un caricaturista, un cultore di strumenti stravaganti e un creatore di bestiari fantastici.
Inoltre si definisce pittore, non artista, e anche qui non sbaglia. Era pittore per definizione, e non di meno in quell’accezione che lega il termine alla ricerca di un risultato quanto più prossimo alla propria idea di sublime e che ha bisogno di una complicità superiore.
Anche di una Musa in carne e ossa, se possibile.
Gaspare è stato un Maestro per molti, e quei molti lo sanno.
In un modo come al solito tutto suo, era puro.
P. B.
Brescia, 30 Maggio 2023
In cinquant’anni compiuti di amicizia conservo di Gaspare una notevole quantità di ricordi, per certa parte non proprio ordinati secondo una sequenza cronologica, ma pur sempre rintracciabili negli archivi della memoria e sufficientemente nitidi.
Di tutti, il più materico è quello che mi accade di vedere non poche volte al giorno, un dipinto a olio su tavola preparata in foglia d’oro del 1975, dal titolo “Il sogno del pastore”.
Glielo comprò mio padre quell’anno stesso, o forse il successivo, sicché l’opera fu esposta una sola volta nella galleria personale di Gaspare, l’angiporto di Vicolo del Prezzemolo che conduceva alla Grotta di Franco Bettoni, la madre di tutte le osterie.
Lo aveva ispirato il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia in un periodo in cui condivideva del grande poeta di Recanati, però in un modo tutto suo, un certo pessimismo mistico, più che cosmico, dal cui giudizio anche la Provvidenza non ne usciva mai molto dritta.
Qui, nell’opera citata, il nomade chirghiso era il pittore stesso, l’amico Gaspare errante, quando le ferie glielo concedevano, in un’asia a misura sua, verde, sinuosa e lieve come la bella e amata Umbria, là dove cercava con la passione dell’artista e dell’iniziato di ripercorrere, sempre a modo suo, la difficile Via di Francesco.
Il canto leopardiano alla luna gli era rimasto in petto, presumibilmente, sin dall’anno di maturità all’istituto tecnico industriale; appartengono infatti agli anni ’60 una piccola tela a olio e alcuni disegni di studio in cui sono graficamente descritte e approfondite figure molto simili a quelle, ormai definitive, presenti nel Sogno del pastore.
Quest’opera è dunque il compendio di una lunga ricerca, nella quale confluiscono, trovando pace e sintesi, suggestioni personali, interpretazioni, lezioni di letteratura, di storia e di religione, o forse sarebbe più appropriato dire di teologia percettiva, che tutto sommato è il metodo più individuale e diretto di conoscere o disconoscere Dio senza disturbare i Maestri.
La stesura dell’oro in foglia lo fece dannare. Puntiglioso, perfezionista, pignolo, estremamente paziente, esigeva il massimo da sé stesso e non si accontentava di un risultato mediocre. Se anche fosse stato invisibile agli occhi del più attento osservatore, un difetto visibile ai suoi non poteva passare per alcun motivo. La tavola doveva essere liscia e pulita come una lastra di cristallo, la colla di pesce andava mantenuta a una precisa temperatura e avere un’altrettanto precisa consistenza, ed era basilare che la foglia d’oro venisse distesa con estrema cautela, data la sua fragilità, quindi fatta aderire alla perfezione e lisciata esclusivamente per mezzo della pietra d’agata e di nient’altro.
Per quanto avesse rispettato tutte le regole ora menzionate, rifece il fondo tre volte. Dopo il secondo tentativo non andato come avrebbe voluto, venne alla Grotta intorno alle sette di sera, ora canonica di aperitivi pressoché interminabili, con un’espressione torva in viso e un sentimento di vendetta contro il mondo, che alla fine era solo la conseguenza di un suo senso di frustrazione travisato. Mi raccontò per filo e per segno i passaggi e gli incidenti tecnici in cui era incorso, non risparmiò sé stesso quanto a insulti, un’autocritica severa e quanto mai eccessiva, ma non risparmiò nemmeno la stirpe del pesce che aveva fornito la colla, la scarsa compattezza della silice nel calcedonio in questione e l’albero maledetto da cui proveniva la tavola ostile.
Accompagnò il malumore con diversi calici di quel bianco tagliato e proletario che costava poco e andava bene a tutti, così alla fine riuscì a litigare due volte di seguito con due persone diverse che stanno ancora chiedendosi con chi mai ce l’avesse.
Insieme alla straordinaria manualità e all’ottimo intuito, Gaspare aveva comunque l’umiltà di capire che per certi mestieri era necessaria una guida, sicché per qualche giorno, dopo il lavoro, andò a bottega presso un doratore suo conoscente, che aveva il laboratorio in una piazzetta della città antica e lavorava molto per la diocesi bresciana, candelabri, soase, gessi, stucchi, sculture lignee, madonne, putti, angioletti, profeti, patriarchi, apostoli, santi, beati, un papa e qualche vescovo. Apprese quanto gli era necessario apprendere e alla fine completò la preparazione del fondo per Il sogno del pastore.
Nel frattempo aveva eseguito con estrema accuratezza il disegno dell’opera sulla carta da lucido, la cui funzione sacrificale era quella di trasferire per incisione sulla superficie definitiva tutta la parte al tratto.
Compiuto anche quell’ultimo passaggio poté finalmente iniziare a dipingere il suo Sogno.
Un sogno quieto, pieno di garbo, i cui attori stanno immobili in posizioni di estrema compostezza formale ed estetica. Tutt’oggi l’immagine d’insieme mi fa pensare alla scena d’inizio di un primo atto sulla quale all’improvviso sia stato diffuso un effetto di luce ancora contenuta e tenue.
A spegnersi lentamente è invece il tramonto lungo la linea d’orizzonte di un deserto dorato, oltre il quale, di qui, verso noi che siamo esterni al dipinto e lo guardiamo, ritornano quei moduli a lui cari, che ancora una volta sono le sue colline umbro-surreali, tondeggianti, sensuali, perfette come seni adolescenti. Sono verdi ed erbose, con pochi alberi solitari, cipressi e qualche pino domestico che si apre a ombrello. S’insinuano garbatamente, ma come un cuneo, tra due territori più aridi.
Tutto è avvolto in uno stato di sopore, ad eccezione della figura sacerdotale, aria da elamita e occhi spalancati che mi ricordano quelli altrettanto grandi e imbambolati di certe figure femminili in Paul Delvaux. Di fianco al sacerdote si erge più possente una deità ornitocefala. Il cielo è attraversato da un grande pesce, l’unico simbolo di cristianità: ha un’aria mite e, forse, si porterà via la luna. In primo piano, seduto sopra un ceppo, c’è il pastore sognante; con un braccio regge la propria testa e con l’altro avvolge in un gesto protettivo un pavone che dorme sul suo grembo. Ai loro piedi un esiguo gregge riposa, in un dormiveglia più vigile. Chi invece non dorme per niente è un rettile, iguana, ramarro, piccolo drago, che parrebbe attardarsi all’ultima luce del tramonto. Probabile che per lui sia soltanto l’inizio di una lunga notte.
C’è molta pace in quest’opera, i canti malinconici alla Luna dei pastori nomadi chirghisi non si avvertono, anche Leopardi è lontano. Le figure del culto, qualunque sia, hanno già l’attenzione altrove, stanno sospese al di sopra del suolo e non lo guardano, semmai lo lasciano. La loro dipartita è una rassicurante brezza di libertà che si diffonde nel sogno.
Credo che fossero pace e libertà, essenzialmente pace e libertà, le più vaghe e divine tra le utopie, ciò che il mio amico andava cercando a quel tempo e in questo Sogno. Nient’altro che pace e libertà. Eirene ed Eleutheria insieme, o ancor di più la poliedrica Ecate, una volta per tutte e per sempre.
La lunga stagione della soffitta in via Vittorio Emanuele II volgeva al termine. Lassù Gaspare aveva prodotto tanto, e non solo in pittura. Aveva costruito il suo cavallo di cuoio, forte, mansueto, ospitale, ben piantato sulle quattro zampe, la groppa larga e dura come quella di una bestia da lavoro (Fig. x). Ed era paziente, quel cavallo, perché ci si saliva in due, ci si stanziava, ci si scopava, ci si poteva passare una serata intera se le poche sedie erano già occupate, le volte in cui ci trovavamo là tutti insieme, quando si svolgeva per naturale consuetudine quel rituale pagano in cui si spartivano il fumo, il vino e qualche altra delizia di quei tempi.
Credo che si fosse tra il ’73 e il ‘74: Gaspare stava insieme a Liliane, che veniva da Parigi e viveva con me e con altri amici nella Comune di via Malvezzi (Figg. xxxx). Impiegò due anni per realizzare un liuto d’incredibile bellezza, rigoroso nella fedeltà ai materiali primari e ricco di particolari preziosissimi, come le opere di cesello, a chiudere i quattro fori della cassa armonica, che evocano i rosoni di chiese gotico rinascimentali splendidamente reinterpretati (Fig. x)
Quelli erano i momenti in cui Gaspare stava meglio, quando il lavoro richiedeva un’attenzione estrema e la pazienza di cento cluniacensi; l’atto di miniare, il cesello, la punta di pennello triplo zero, la mano ferma e sicura che tiene un bulino tagliente con confidenza, con leggerezza, come fosse il gambo di un fiore da non lasciar cadere e da non spezzare. Poi le pupille che vanno a fuoco, si fissano su di un punto e non lo lasciano più. La mano, quindi, e la punta dello strumento di lavoro, gli occhi fissi, la concentrazione ti trascinano là dentro, ti ci trasportano con tutta la tua coscienza, così che diventi in pochi istanti quella cosa stessa, all’estremo margine di un microcosmo impenetrabile che ti contiene e che ti protegge da ogni insidia, perché niente e nessun altro ti può seguire in un laggiù così privato e profondo.
Ecco: quelli erano i momenti in cui Gaspare stava bene, e più duravano, meglio era. Non sentiva il bisogno di alcunché, nemmeno del vino. Però non potevano durare in eterno. C’era il suo lavoro di perito tecnico all’Enel, che gli garantiva la sopravvivenza e gli permetteva di aiutare la madre anziana, ma che odiava profondamente, senza mezze misure: era il suo Bagne de Cayenne esistenziale, quarant’anni di lavori forzati retribuiti da scontare fino all’ultimo giorno. Poi c’era tutto il resto: gli amici, gli affetti, gli scopi mancati, i conflitti, le cose irrisolte, l’amore.
Insomma, la questione è nota, ed è che quando il vino diventa il nostro nemico fraterno i guai peggiori hanno inizio. Sicché accadeva sempre più spesso che durante certe serate in compagnia, in cui la spensieratezza, la condivisione e l’allegria coralmente invitavano ad essere bagnate, una improvvisa fiammella desse fuoco a una miccia, e guarda caso dietro a quella fiammella c’era sempre l’amico Gaspare con le sue prese di posizione, con i suoi princìpi inoppugnabili. Così ci si ritrovava di punto in bianco a scazzottare e non era il caso di chiedersi perché, o cercare di capire da che parte stessero la ragione e il torto: il solo scopo era quello di tirarlo fuori dai guai, e anche alla svelta.
Smaltiti l’alcool e l’adrenalina Gaspare ripercorreva l’accaduto, riconosceva le sue responsabilità e ne soffriva, talvolta fino alle lacrime. In lui cresceva a tal punto il senso di colpa, durante una notte quasi insonne, che il giorno dopo era capace di ritornare sul luogo della lite e di scusarsi, riuscendo il più delle volte a stringere un’amicizia o a ricucirla.
Questi incidenti accadevano con relativa frequenza e comunque capitavano più spesso in provincia che non in città, quando si andava alla ricerca di qualche vecchia osteria, di qualche “licenzino” abusivo nelle Valli bresciane o bergamasche, dove il sangue è più caldo e forse il lavoro è più duro.
Soffriva immensamente per il fatto di non potersi dedicare all’arte tutti i giorni e a tempo pieno, soffriva se stava lontano dai suoi strumenti di lavoro o, peggio, dalle tele iniziate e sospese per forza maggiore, che stavano là ad aspettarlo in uno stato d’incompletezza insopportabile. Ne sentiva il lamento e loro sentivano il suo.
Gaspare a quel tempo leggeva abbastanza poco, fors’anche per il fatto che una volta uscito dal lavoro all’Enel si rifugiava nella sua soffitta e si rimetteva all’opera.
L’esecuzione di ogni dipinto era lenta e meticolosa. Impiegava dai tre ai sei mesi per portare a termine un soggetto, e questo aumentava le sue ansie, inevitabilmente. Perché tante altre idee, tanti altri progetti crescevano nel frattempo e si accalcavano nella sua testa, lo incalzavano, lo pressavano da ogni lato, diventavano prepotenti e non era semplice tenere a bada tutta quell’energia.
Leggeva abbastanza poco, dicevo, che non significa non leggere per niente. In realtà aveva le sue passioni letterarie, i suoi libri più amati. Vorrei ricordarne uno in particolare, perché diventò e restò per molto tempo il suo primo vangelo, un romanzo che Gaspare, sul finire degli anni ’60, lesse e rilesse sette volte, tanto l’amò, tanto entrò nelle pagine e fra le righe, tanto s’immedesimò nel protagonista e si lasciò irretire nelle trame avvolgenti di una storia senza dubbio affascinante e potente.
Il romanzo era La luna e sei soldi, scritto da William Somerset Maugham nel 1919. Nella storia del suo protagonista, Charles Strickland, agente di cambio che a quarant’anni lascia moglie, figli, lavoro, per iniziare l’avventura dell’arte, da Parigi a Tahiti, è riconoscibile la vita di Paul Gauguin, liberamente rivisitata dallo scrittore britannico.
Ciò che Maugham riesce a trasmettere con la maestria del grande romanziere è la potenza attrattiva e demoniaca dell’arte, la sua forza di possessione, la malìa di cui è capace, che può indurre a scelte crudeli e dolorose, che può condurre alla follia.
Non è possibile opporsi al demone dell’arte: quando ci occupa e ci possiede, l’anima è già perduta. A quel punto, o lo si asseconda o si muore.
Travolgenti e dannate, le pagine di epilogo raccontano di un uomo ammalato, ormai prossimo alla fine, reso cieco dalla sifilide, che sulle quattro pareti di fango della sua capanna dipinge un affresco d’indescrivibile bellezza, la sua opera più grande, che a nessuno sarà dato vedere dacché brucerà insieme al suo autore nel rogo infernale di quell’umile dimora.
Così almeno mi pare di ricordare, e poiché su indicazione di Gaspare lessi La luna e sei soldi a vent’anni e una volta sola, posseduto anch’io dallo stesso demone, non vorrei avere travisato a distanza di mezzo secolo il racconto di un maestro travisatore.
Sono abbastanza convinto, comunque, che per una personalità complessa come quella di Gaspare, costellata di fragilità, di punti di rottura, con non pochi spigoli, e non di meno per la sua connaturata sensibilità surrealista, disposta a rendere vero l’inverosimile, quel libro fosse stato al tempo stesso rivelazione e flagello: gli aveva mostrato chi era. “Per speculum et in aenigmate” avrebbe precisato Paolo di Tarso.
Gaspare, insomma, nel romanzo di Somerset Maugham ci si era riflesso e si era riconosciuto. Sentiva il demone dentro di sé, più s’illudeva di riuscire ad addomesticarlo, più quello gli dava dolorose lezioni d’incompatibilità, d’intolleranza, mostrandogli l’abisso tra i due mondi che Gaspare si sforzava di far convivere, per obbligo, per necessità, non certo perché fosse convinto che una possibilità esistesse.
In quelle circostanze, avrebbe voluto chiedere al vino d’intorpidirgli la mente, di addormentare il demone per qualche ora, di avere un po’ di tregua per sé, niente di più, ma anche il vino oramai lo tradiva con una metodicità crudele e progressiva.
All’interno dell’ente nazionale per l’energia elettrica di Brescia s’impegnò sempre e con tutte le sue forze a non fare carriera.
In un cassetto intermedio della sua scrivania, nell’ufficio in cui lavorava, aveva ricavato il suo atelier a scomparsa. Lo apriva e d’incanto un cavalletto da tavolo già dotato di tela o di un cartone telato, piccole misure, si alzava fino a raggiungere una posizione obliqua stabilita, in modo che il punto d’osservazione di Gaspare fosse perpendicolare alla superficie da dipingere. Intorno, in spazi delimitati e a incastro, erano riposti con ordine i tubetti di colori a olio della Winsor & Newton, che a quel tempo erano i suoi preferiti, i pennelli, gli stracci ripiegati con cura, le spatoline per impastare l’olio al colore, boccettine chiuse con i tappi a vite e guarnizione in cui stavano l’olio di lino, l’essenza di trementina, l’acquaragia; un marchingegno dei suoi, che aveva richiesto tempo e un impegno non da poco, con prove, modifiche, qualche rischio e molta tensione. Ma alla fine ne era venuto fuori qualcosa di preciso, funzionale, efficiente, pura meccanica e praticità, costruito a misura di quel cassetto. E questo era il punto debole; se avesse fatto un piccolo scatto in avanti, nella carriera, avrebbe dovuto cambiare ufficio e la sua vecchia scrivania non avrebbe potuto seguirlo nei nuovi ambienti.
A scomparsa, sì, ma non segreto. Gaspare si sentiva circondato da nemici e probabilmente qualcuno l’aveva davvero. Niente di più facile, peraltro, che il suo capo ufficio, alla necessità, lo minacciasse proprio con una promessa di promozione.
Però, quel sottobosco impiegatizio così meschino, e cinico, e sleale, quel mondo piccolo borghese simbolicamente a metà tra il ragionier Fantozzi interpretato dall’impareggiabile Paolo Villaggio per la regia di Luciano Salce e il signor Bristow dell’ufficio acquisti ideato da Frank Dickens, non era sempre l’uno e non era sempre l’altro. In mezzo a qualche probabile nemico Gaspare aveva anche amici silenziosi e discreti che senza dare tanto nell’occhio lo proteggevano. A partire forse da chi gli stava più vicino, perché non è indispensabile essere pittori navigati per distinguere l’odore della trementina da quello del dopobarba, che Gaspare nemmeno usava.
Detto in parole povere: non era per niente difficile volergli bene.
È un peccato che di quella scrivania e di quel suo cassetto magico non ci siano testimonianze fotografiche; avrebbero meritato di essere qui, come opere in mezzo alle altre sue opere.
La meccanica delle aperture magiche e delle genialate semplici ma sorprendenti era suo dominio. Come la tenda canadese, che aveva adattato al portapacchi della sua Volkswagen Maggiolino color Nord Atlantico in un giorno senza sole, la quale si apriva, si tendeva e si bloccava tutta da sola nel momento in cui, da sotto la sua base, si sfilava e si poggiava a terra la scaletta in alluminio che serviva per salirci. Tutto in un solo gesto e con una sola mano, senza sforzo alcuno. Tutto animato. Tutto semplice e sorprendente. Il surrealismo che Gaspare sapeva applicare alla realtà.
In quegli anni non esistevano cose del genere sul mercato. Sicuramente esistevano per certi fuoristrada di lusso, per le Land Rover da safari, per le jeep e i camper delle troupe televisive in missione al Borneo o in Amazzonia, ma per le utilitarie, per le Cinquecento, le Errequattro, le Diane, le Duecivì e i Maggiolini, le auto di noi mortali, giovani e squattrinati hippies dal sacco a pelo facile, non c’era proprio niente di simile.
Gli fosse venuto in mente di brevettarla? Gaspare voleva solo evitare di buttare via un vecchio portapacchi e cercava la soluzione migliore per non dover montare e smontare ogni volta la tenda, per non andarla a piantare nel campo di qualcuno e farsi cacciare via in malo modo, per potersi fermare su uno spiazzo, in uno slargo, sulla riva di un fiume, sulla sponda dell’Aiso, ovunque fosse possibile e ovunque ne valesse la pena, durante i suoi viaggi solitari in Umbria.
Qualche volta, nelle notti d’estate, salivamo in Maddalena e a mezzo monte, lasciata la strada principale per una stradina sterrata, raggiungevamo sul versante sud una piccola piana nascosta oltre la vegetazione, una specie di cengia a bassa quota, di terrazza al di là della quale il fianco della nostra montagna di casa scendeva ripido fino alle prime abitazioni, di fronte alla Wührer di viale Bornata. A quel tempo dietro alla fabbrica di birra non c’erano che campi. Le luci dei lampioni della Bornata e di viale Piave si congiungevano a quelle di via Mantova, poi continuavano con una curva lunga e morbida fino a San Polo. Ma San Polo di oggi non esisteva, e nemmeno San Polino, sicché di notte, viste da lassù, le luci lontane di quei lampioni sembravano costeggiare un ampio golfo e le poche luci fioche provenienti da qualche cascina isolata in mezzo ai campi davano l’impressione di essere lampare. Entrati in retromarcia sul piccolo pianoro sospeso nel vuoto, aprivamo la canadese, due posti comodi, già munita di un morbido materassino in gommapiuma, e con la testa fuori dalla sua apertura triangolare contemplavamo un mare notturno tra i più belli, ancorché inesistente. Era come guardare il Golfo di Napoli dal versante nord del Vesuvio, ma senza ansie pompeiane alle spalle. Poteva accadere che ci facessimo un ultimo joint, poi chiacchieravamo, scherzavamo e ridevamo finché il sonno non ci spegneva le luci. Al mattino si tornava giù, Gaspare andava al lavoro e io al mio studio, dove il più delle volte mi rimettevo a dormire.
Tornando invece all’indimenticabile astroporto che era la Grotta di quegli anni, per un po’ di tempo non si fece vedere. Poteva anche essere un buon segno, dopotutto.
Riapparve quasi per caso e mi disse che a volte, dopo cena, preferiva andare all’Antico Inferno, perché era un po’ più tranquillo, e che la tranquillità era tutto ciò di cui aveva bisogno in quel periodo. Però gli avrebbe fatto piacere se qualche volta fossimo andati là anche noi, intendendo con quel noi dire me, gli amici di sempre, le nostre compagne.
L’Antico Inferno si trovava in Corso Cavour, di fianco al tribunale, a cento metri scarsi dalla Grotta. Ci andavo a cena abbastanza di frequente con Lucia, la ragazza con cui stavo allora, e talvolta anche a pranzo con qualche amico. Era una trattoria carina, due sale e un piccolo cortile interno, si mangiava bene e i prezzi erano molto contenuti. I proprietari, Silvio e sua moglie Bruna, erano persone gentili: inoltre la signora Valzelli cucinava piuttosto bene. Di sera davano una mano anche i loro figli più grandi, Susanna e Mirko.
Così cominciammo a frequentare l’Inferno un po’ più spesso, anche dopo cena, e ci parve subito abbastanza chiaro che l’attenzione dell’amico Gaspare, più che sui nostri discorsi, andasse a finire regolarmente su Susanna.
Non molto tempo dopo mi confidò in gran segreto di essersene proprio innamorato. Come se non se ne fosse accorto nessuno. Bella e dolcissima, i lunghi capelli castano chiari, lisci e luminosi, fini come la seta, separati da una sottilissima e perfetta riga nel mezzo… Ovvio, che se ne fosse innamorato: in tutta Brescia non c’era in quel momento una creatura più rinascimentale di lei. Susanna era una Dama senza ermellino, era una Monna Lisa dal sorriso molto più dolce e senza grandi sforzi più triste, un sorriso delizioso e gentile, non privo anch’esso d’un suo enigma.
Solo che a quell’età, oscillante tra i venti e i trent’anni, poco più, poco meno, eravamo tutti talmente compresi nel vivere quanta più vita possibile, se mai fosse stata un soffio, che ci si poteva non fare caso. Invece l’enigma senza mostrarsi affiorava, talvolta, e stava lì, presente e appartato, sempre un po’ fuori fuoco, quando Susanna era dietro al banco del bar, rispetto alla piccola sala anteriore che dava su Corso Cavour.
L’enigma affiorava, dicevo, da un sorriso capace di stare immerso in un suo silenzio privato anche nei momenti in cui il vociare degli avventori bruciava i decibel.
Susanna era tutto questo e forse era anche di più.
Per estensione temporale, era la Beatrice Portinari di Dante, la Laura de Noves del Petrarca, era la Fornarina di Raffaello Sanzio, era Lizzie Siddal, Effie Gray, Annie Miller, Fanny Cornforth, era tutta la sorellanza preraffaellita in un solo corpo, era la Musa di Gaspare e la sola donna che avrebbe potuto sposare.
Infatti lo fece.
Dalla loro unione nacque Valentino, nell’aprile del 1979. Abbastanza comprensibilmente ci perdemmo di vista. D’altra parte anche nella mia vita, nel frattempo, molte cose erano cambiate e molte altre stavano cambiando.
Gaspare a quel punto fece una scelta coraggiosa che taluni nostri amici, purtroppo, non trovarono mai la forza di fare: si affidò agli Alcolisti Anonimi e a botte di battaglie alterne vinse la guerra.
Dagli Alcolisti Anonimi non si staccò più fino alla fine dei suoi giorni, forse non più per bisogno, ma perché era scesa su di lui una solitudine greve, specialmente negli ultimi tempi.
Ecco, apro e chiudo quanto dico nel brevissimo spazio di due parentesi virtuali: so che in quelle battaglie né si cade né ci si rialza da soli, che certi fendenti e certe ferite colpiscono duro anche chi è più vicino, ma va riconosciuta a Gaspare una volontà di ferro e l’umiltà, rara in questi casi, di avere saputo chiedere aiuto.
Alle mie mostre, comunque, veniva sempre: quelle bresciane, quantomeno. Erano occasioni per rivederci e per aggiornarci mutualmente sulle vicende dell’uno e dell’altro.
Tornò invece a farsi vivo con più frequenza dopo essere andato in pensione. La sua Cayenna era finita e Gaspare, finalmente, poteva ricominciare una seconda vita nell’arte.
L’opera più grande, però, era Valentino. Ne parlava con orgoglio, ne andava fiero.
Talvolta, nel raccontare di suo figlio, senza rendersene conto si lasciava trascinare dall’emotività, dall’entusiasmo, al punto che quasi sembrava averlo fatto lui, quel ragazzo, tutto da solo, più o meno come il liuto, di averlo modellato e creato con le proprie mani, magari dall’argilla, per citare il materiale prediletto di un altro artigiano di notevole fantasia, l’indiscusso fondatore dello sperimentalismo.
Conoscevo Gaspare a sufficienza per non nutrire alcun dubbio sul fatto che, con tutto l’amore paterno, con la più sincera buona fede e nella convinzione di agire per il solo bene del suo unigenito, avrebbe quantomeno tentato di plasmarne il carattere, di trasmettergli tutto il sapere della sua esperienza umana; a immagine e somiglianza, aggiungerei con tutto l’affetto per il mio amico, di un ideale Sé per mille motivi mai raggiunto, che però gli restava incollato addosso come la corteccia cerebrale al telencefalo.
Quello che Gaspare sembrava non calcolare era che il figlio potesse avere preso qualcosa dal padre, quanto a caparbietà e testardaggine. E a proposito di corteccia cerebrale, che dovrebbe essere la sede della memoria, anche in tal senso Valentino era messo piuttosto bene: amava lo studio e apprendeva con una facilità sorprendente, aveva frequentato il liceo classico con risultati alti e l’aveva concluso con una maturità esemplare. Inoltre, aveva idee molto chiare sul suo futuro.
Ho conosciuto di persona Valentino soltanto nel dicembre del 2003, quando Gaspare fece la sua ultima mostra personale in Vicolo del Prezzemolo. Era già alla fine del suo percorso universitario e si sarebbe laureato in Archeologia pochi mesi dopo, nel giugno del 2004. Il padre era al settimo cielo, quello originale, il cielo saturnino degli spiriti contemplanti.
In seguito nacquero tra loro delle tensioni che crearono ansie e sofferenza a entrambi.
Valentino si era dedicato alla ricerca, si muoveva bene negli ambienti accademici e aveva spostato la sua vita tra Spagna, Inghilterra e Germania. Inoltre aveva iniziato a firmare col suo nome numerose pubblicazioni. Certo, non era ancora un vero impiego. C’era da correre e da lottare.
Eravamo rimasti in contatto ed era un piacere seguire il suo lavoro. M’inviò per email una sua raccolta di saggi sul culto isiaco, straordinariamente approfondita e rivelatoria. La stampai e me la lessi in una sera; è tuttora nella libreria del mio studio tra altri testi di storia dell’arte. Sapere del suo lavoro e dei suoi progressi mi era utile anche per dimostrare a Gaspare la bontà delle scelte di Valentino, allo scopo di costruirsi la sua carriera e un posto prima o poi sicuro all’interno dell’università. Ovviamente, vivere all’estero aveva i suoi costi. Anche i “master” hanno i loro: perché in questo mondo di lupi d’accademia, spesso una laurea non basta.
Di contro, Gaspare non si spiegava come fosse possibile che con una laurea così prestigiosa Valentino non trovasse un lavoro, una supplenza, qualcosa da cui cominciare.
Amava il fatto che suo figlio fosse archeologo, una facoltà tra le più impegnative, ma l’avrebbe immaginato volentieri discutere in latino e greco antico con una pala in mano, mentre scavava buche intorno a un paio di pietre sospette a cento chilometri di deserto da Nag Hammadi o nel cuore dell’Anatolia, con quarantotto gradi al sole. Cultura e muscoli, insomma. Fango alle ginocchia, polvere negli occhi, scorpioni bianchi, templi e papiri da restituire alla luce. Cose concrete. Che senso aveva laurearsi e poi dover studiare ancora?
- Se fai il ricercatore, devi studiare – gli dicevo – e se fai il ricercatore per tutta la vita, studi per tutta la vita. -
Nel toccare l’argomento riemergevano all’istante i suoi princìpi inoppugnabili, tra i quali troneggiava l’evidente ed ennesima dimostrazione, stavolta sulla sua pelle, se non già sulla pelle della sua pelle, del primato degli studi tecnico scientifici rispetto a quelli umanistici. E quando lo diceva, mi fissava con un’espressione tra compiaciuto e inquisitorio, quasi fosse in attesa di una mia ammissione in tal senso, come a dire – tu non puoi negare che quello che dico è fondato, perché hai fatto il classico e poi hai scelto la via dell’arte. – e siccome la soddisfazione non gliela davo, concludeva dicendo – a che cazzo vi è servito studiare greco e latino? –
Il “vi” era fuori luogo perché c’era e c’è una profonda differenza tra i due casi. Dopo cinque anni di convivenza un po’ turbolenta il greco e io ci siamo lasciati senza troppo rancore, ma con la promessa reciproca di non frequentarci mai più, fin dove fosse stato possibile. Inoltre il classico lo feci perché amavo le sue tre letterature e perché l’accademia d’arte ce l’avevo già in casa.
Valentino il greco lo parla, lo legge, lo scrive; così come il latino e probabilmente qualche altra lingua sepolta da millenni che per lui non è morta.
Da quegli alfabeti e dalle loro grammatiche trae le notizie necessarie al suo lavoro.
Sospetto che ci sia molta più letteratura tra la crosta terrestre e il mantello superiore, che in superficie: letteratura che valga la pena di cercare, soprattutto.
- Tuo figlio è un altro di quei cervelli che per funzionare appieno devono andare all’estero – dicevo a Gaspare. Lui capiva, sorrideva e sentiva aggiungersi un’altra libbra di peso sulla sua solitudine.
Un giorno mi chiese se avevo voglia di scrivere una libera interpretazione de La vetta impossibile, un suo dipinto del ’97 che già conoscevo (Fig. xx). Accettai molto volentieri e la scrissi in forma di “Lettera a Valentino” nella speranza che potesse, anche se di un poco, contribuire a risanare quella lacerazione ancora aperta tra padre e figlio che pareva non rispondere più ad alcun tentativo di sutura. Non servì a niente. La ferita si chiuse da sola quando Valentino portò a casa i primi risultati concreti della sua perseveranza e Gaspare ammise, se non proprio di avere avuto torto, di non avere avuto ragione.
Mantenne segretamente le sue opinioni sull’inutile indispensabilità dei saperi umanistici rispetto a quelli tecnico scientifici. Per contrasto, forse anche lui alla ricerca di un tempo irrimediabilmente perduto, o più probabilmente per avere nuovi pretesti di dialogo con il figlio, si mise a studiare la filosofia.
Mai conosciuto un uomo più coerente con le sue contraddizioni, a parte me.
Sul futuro lavorativo di Valentino ammise di conservare ancora molti dubbi, ma siccome sapeva che suo figlio e io eravamo spesso in contatto, mi pregò di non dirglielo. E così ho fatto, fino all’istante che precede questo.
D’altra parte Gaspare vedeva il mondo attraverso i suoi strumenti, spesso rari e curiosi.
Concepiva il lavoro come ponos. Prima è necessario l’intelletto, per il concepimento e la progettazione di qualcosa, ma poi servono le mani, talvolta i muscoli. Serve la fatica, appunto, e serve la materia, perché un lavoro si deve vedere, si deve toccare, e soprattutto deve servire, deve avere uno scopo e perché no? essere anche utile a qualcuno, una volta ogni tanto. Come il suo cavallo di cuoio, per esempio, sul quale, volendo, si poteva persino fare l’amore.
Ecco, Gaspare era più o meno così, a mio vedere. Aveva una concezione tutta artigianale dell’arte, rigorosamente pittorica, in senso tradizionale, negli strumenti e nel metodo.
Ricordo quanto male ci rimase allorché scoprì che Giuseppe Pellizza da Volpedo aveva fatto uso della fotografia per la realizzazione di certi suoi dipinti. Avrei voluto dirgli che ne avevano fatto uso anche taluni impressionisti, chi un po’ di nascosto, chi abbastanza apertamente e con certa naturalezza, come Edgar Degas, per esempio, che non di rado usava intervenire con il colore direttamente sulla stampa fotografica. Ma mi trattenni, non glielo dissi; gli avrei fatto a pezzi un mondo.
Gaspare: l’arte contemporanea non l’ha nemmeno sfiorato.
Un avulso, un anacronista, uno che risulterebbe anacronistico anche tra gli Anacronisti, che ha dipinto soltanto per sé stesso e per pochi intimi, per i suoi amori, per i suoi affetti e per i suoi amici.
Avevo la sensazione che talvolta le sue tele venissero attraversate da creature fuggite agli appunti di Hieronymus Bosch o di Pieter Bruegel il Vecchio, creature che andavano veloci, si fermavano un po’ sui suoi quadri, riprendevano fiato, e poi via di corsa, verso chissà dove.
Sulla pagina d’apertura del suo sito internet si dichiara pittore surrealista, ed è una definizione senza dubbio corretta, sebbene un po’ troppo generica e riduttiva, nel caso suo. Perché Gaspare era anche un naif raffinato; e un fiammingo, un simbolista, un metafisico sui generis, che della metafisica potrebbe avere risolto il problema centrale proprio in questi giorni.
Era anche un paesaggista, un miniaturista, un caricaturista, un cultore di strumenti stravaganti e un creatore di bestiari fantastici.
Inoltre si definisce pittore, non artista, e anche qui non sbaglia. Era pittore per definizione, e non di meno in quell’accezione che lega il termine alla ricerca di un risultato quanto più prossimo alla propria idea di sublime e che ha bisogno di una complicità superiore.
Anche di una Musa in carne e ossa, se possibile.
Gaspare è stato un Maestro per molti, e quei molti lo sanno.
In un modo come al solito tutto suo, era puro.
P. B.
Brescia, 30 Maggio 2023
PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
Antonio M. Faggiano
Ogni opera di Antonio Michelangelo Faggiano mi ha tradotto in un Nuovo Mondo. Sempre. Immancabilmente. Talvolta ne è stata la porta d’accesso, altre volte vi era già immersa, così da sottendere trascorsi che avevano contribuito a definirne la forma. Esistono perciò tanti Nuovi Mondi quante sono le opere di Antonio.Guardando queste si entra in quelli, li si abita, si appartiene alla narrazione e ai luoghi in cui la stessa si svolge, cosicché divieniamo in continuazione, come in un giorno qualunque della nostra vita, ma un giorno in più, che altrimenti non avremmo avuto. Dentro le sue opere sono stato sempre bene, preso ogni volta da uno smarrimento dolce e persistente. In fretta ne ho capito il perché: non c’è un solo angolo del suo cosmo artistico che non sia abitato da Eros, e di Antonio Eros è stato l’alter ego per tutto il breve tempo di quest’ultima vita. C’è infatti un giorno in cui tutto finisce, e non è un giorno in più; serve perché le cose ricomincino altrove, inscritte nel cerchio nietzschiano dell’eterno ritorno. Delle opere di Antonio Faggiano, dunque, non si è spettatori, si è parte, cioè si è l’arte in sé, secondo la lezione che l’artista ha tradotto di Joyce. Ce lo dicono i Dubliners da più di cent’anni: tutti noi siamo letteratura. … e Duchamp Un amore smisurato. Di tale grandezza che mi sono chiesto come sarebbe potuto esistere Marcel Duchamp, se in seguito non fosse venuto, con tanta puntualità, Antonio Michelangelo Faggiano. Li accomunava il desiderio. Provi, un artista, a non fare dell’arte! Provi, e si ridurrà a conoscere in vita solo il versante nero della propria morte. L’arte è un desiderio eternamente ardente. Tiene alla sua fiamma e si circonda soltanto di chi l’alimenta. Come Duchamp, Antonio aveva intuito che il desiderio si offre a noi seguendo il verso degli oggetti che lo popolano, oppure l’umore delle sue creature. Così, per esempio, l’erotismo malinconico di un sorriso sul volto di una giovane donna, si offre all’uno, Antonio, attraverso il suo doppio e ad uno sciame di molteplici forme rarefatte, mentre all’altro, a Marcel, nasconderà la sua origine per vent’anni, celando la testa dietro un muro quasi probabile e offrendogli uno scorcio scomodo sul corpo bello e immarcescibile, così che se lo porti appresso, quel desiderio ancora intatto, ancora inappagato, nell’oltrevita. Dei volti di donne di Antonio conosco la grazia diafana e attraente, il pallore che rivela, pure tacendola, quella certa malattia dell’anima, la stessa che si è portata via l’artista, però non sempre di loro riesco a ricordare il nome, normalmente elegante come la forma che le descrive. Invece so perfettamente che la faccia nascosta della donna* di Duchamp ha gli stessi tratti di Rrose Sélavy. Per questo è caduta. Per meglio dire, non c’è mai stata. E non poteva essere che così. L’aveva detto la stessa Rrose nel ‘59, a New York, o forse era stato ancora Marcel: “Bisogna essere iconoclasti”. P.B. Brescia, 5 Giugno 2016 *Marcel Duchamp: Étant donnés
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A.M.Faggiano: doppio sguardo (1999)
A.M.Faggiano: ...che visitarono la Mitessa (1980)
A.M.Faggiano: ...le perroquet qui regarde Geneva au bas blanc (1996)
A.M.Faggiano: Monna Gisa (1996)
A.M.Faggiano: Sottopelle (1999)
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A.M.Faggiano: Un'ora troppo tarda (1981)
PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
Cent'anni d'irrequietudine
Primo centenario della nascita di Guglielmo Achille Cavellini, GAC (1914 - 2014)
Dall’alto del suo crocifisso neo gotico ispirato a Giovanni Cimabue, GAC irride lo stesso sistema che l’ha messo in croce. Il luogo in cui si trova l’opera acquisisce così una sacralità beffarda, perché è anticamera di una sala riunioni tra le cui pareti, nei fatti, si cerca di affrontare il sistema, d’interpretarlo, di arginarne le insidie, spuntarne gli aculei e, fin dove è lecito, di eluderlo. Quindi, non è un caso che si trovi lì. Peraltro conosco Giorgio Fogazzi abbastanza bene per sapere che non affiderebbe niente al caso, perché agisce anche nell’arte secondo una propria euristica, la cui fonte può indifferentemente essere razionale, umorale, animica. Ad un’altra parete dello stesso ambiente c’è il grande quadro dell’82 con le 12 smorfie di GAC in papillon. Ne deduco che GAC sia il suo pubblico e che una serqua di fedeli a se stessi assista al proprio martirio esorcizzandolo nella beffa. Una scena coerente all’azione iniziata nel 1971 e mai più abbandonata. I sistemi mettono in croce: tutti. Si alimentano gli uni con gli altri attraverso la trasmissione di diversi veleni. Quello dell’arte non fa eccezione: è ammalato di singole presupponenze, è portatore insano di esclusivismi devianti. È, come ha scritto Marco Meneguzzo, un sistema che subordina la verità storica all’efficacia dell’informazione. È pane per i denti di GAC. Così, come Devadatta per Buddha, il più grande maestro di Guglielmo Achille Cavellini è stato proprio il sistema che l’ha respinto, perché gli ha dato carica, arguzia, forza, risentimento. Gli ha dato la capacità di sostituirlo con un altro più efficiente che l’artista ha costruito intorno a sé, a sua propria misura. Nello studio di Giorgio, come nella sua casa, GAC è un po’ dappertutto e non è mai solo. Alle pareti ci sono altre presenze che concorrono a comporre il grande ritratto. Ci sono anche io, generazione figlia della prima (nel mio privato, infatti, questo 2014 è il primo centenario della nascita di mia madre). Di chi sia il grande ritratto non ci sarebbe bisogno di dirlo, se non fosse che talora i volti si sovrappongono, ad immagine dell’essere mutevole e ambiguo dell’artefice. A reggere le fila dell’insieme c’è, sempre e comunque, il grande spirito fogazziano, che è forte di differenti affinità con le presenze intorno. E c’è il collezionista anomalo che GAC aveva riconosciuto fin dall’inizio. A pagina 139 di “Vita di un genio” il suo autore scriveva: “In Fogazzi ritrovavo molte analogie con la mia vita di collezionista: grande entusiasmo, informazione, intuizione. Divenimmo amici.” La parola “amici” non è usata con leggerezza, ma è intrisa delle significazioni e dei contenuti che le sono propri, come dimostreranno le loro azioni da quel momento in poi. E di seguito: “[Fogazzi] È stato l’unico collezionista che mi ha acquistato un buon numero di quadri, sfidando il giudizio dell’opinione pubblica. Gli do pubblicamente atto di questo suo gesto; perché un aiuto materiale è un fatto molto importante nella vita di un artista, particolarmente quando è ridotto all’isolamento ed è incompreso.” Qui, un apoftegma cristologico si fa slogan. Perché nessuno era in grado di capire, a quel tempo e in questa patria, che “la mia vita di collezionista” era il titolo di un’altra grande opera cavelliniana, eseguita nei tempi necessari al suo compimento. La stessa opera di Giorgio Fogazzi, che possiede, fra gli altri, più di cento opere di GAC esattamente come GAC possedeva, fra gli altri, più di cento opere di Birolli: con lo stesso spirito. Perché di fatto sono lo Stesso Spirito. Li avvicinava, distinguendoli dagli altri, quel loro modo di acquistare un pezzo di artista, più che la sua opera, un frammento d’intimità con lui, qualcosa su cui indagare e da cui ripartire. La tela era ancora a metà, sul cavalletto, e già gli apparteneva, ma da quel momento in poi perdeva importanza rispetto al suo autore, che alla parte materica del proprio atto creativo avrebbe aggiunto pensieri, riflessioni, confronti, schermaglie, riappacificazioni. Da questo e non da altro potevano nascere opere a più mani, firmate insieme, oppure lettere, appunti, dichiarazioni scritte sopra superfici di fortuna, capaci di diventare potenti come manifesti bretoniani. “… sfidando il giudizio dell’opinione pubblica” spesso era per GAC un’ossessione. Eppure in mano loro, quando si trovavano insieme, quando erano in vena, “l’opinione pubblica” era ridotta ad una creaturina dadaista, da stropicciare a piacimento. E che altro dovrebbe essere, GAC? A cosa sarebbe servita l’avventura più avvincente di tutta la tua vita, se l’opinione pubblica avesse smesso all’improvviso di svolgere la sua funzione limitante, di confine? Di chi o di che cosa ridereste tu, il tuo gruppo degli otto, la tua donna, il tuo amico Fogazzi, se non ci fosse quell’ottusità indifferente che dice, per mezzo di autorevoli portavoce: “ Sei doganiere? E allora fai il doganiere! Sei agente di cambio? Non rompere i coglioni e continua a fare l’agente di cambio!” Di chi e di che ridereste? Non è cambiato niente, GAC: nemo propheta acceptus est in patria sua. Ed è meglio che sia così, altrimenti avremmo dovuto rinunciare a troppi pezzi della nostra storia, ad un ritorno amaro di Gesù nella sua Nazareth, all’ultima autodifesa di Giordano Bruno e magari anche a te. Sarebbe stato un po’ troppo, non credi? Questo era, pressoché, ciò a cui stavo pensando, quel giorno di Aprile, nello studio di Giorgio Fogazzi; tant’è che gli ho chiesto come fosse possibile commemorare il primo centenario di GAC senza la sua collezione. E senza la sua testimonianza, per giunta. Perché un centenario ha quel gran brutto difetto di capitare ogni cento anni; salta una testimonianza e puoi stare certo che l’hai persa per sempre! La risposta di Giorgio mi è arrivata via e-mail il giorno dopo. Metto la mano sul fuoco che non ci ha dormito. Brescia, 24 Aprile 2014 Caro Paolo, ho riflettuto su ciò che ci siamo detti ieri, e ho concluso che deve essere organizzato un evento speciale per il 2014 a Cavellini. Ci sono: 1) Le testimonianze: - Mia; - Di Barbara Regé, la compagna degli ultimi dieci anni di Cavellini, con la quale si usciva regolarmente insieme; - Di Fausto Paci, l’ambasciatore cavelliniano. 2) Opere dedicate a me. 3) Opere fatte a quattro mani da Achille con me e da Achille e Barbara. 4) Lettere, non solo di Cavellini, ma di Arturo Vermi di Minini di Emilio Isgrò. 5) Aneddoti. 6) Decine tra le migliori opere che abbia fatto Gac e che coprono l’intera sua produzione. 7) I libri che ha scritto. 8) I fascicoli delle “mostre a domicilio”. Però c’è poco tempo. Fammi sapere se hai una strada e io sono disponibile a parlarne subito. Se non puoi, dimmelo, e vedo di fare diversamente. Ciao, Giorgio Gli ho risposto che posso. Gli ho anche risposto che non sarebbe bastato un solo evento per tutta la collezione, ma che sarebbe stato necessario immaginare, fin da subito, il progetto in più atti. L’Arte Postale, per esempio, avrà bisogno di spazi e di percorsi più ampi. Avrà bisogno, almeno nella mia immaginazione progettuale, di un camminamento fatto lungo il filo di Arianna, ma senza le stesse insidie, dove poter trovare qua e là comode zone di sosta, di dibattito e di ristoro: estetico, ricreativo, didattico. Intanto si comincia da qui, dal primo atto. “Ce n'est qu'un début” direbbero quelli come me. P.B. Brescia, 14 Giugno 2014 |
GAC: Il sistema mi ha messo in croce (1983)
GAC: cassetta n° 145 che contiene opere distrutte del 1967
GAC 1975
Andy Warhol: ritratto di GAC (1974)
GAC e Andy Warhol (1974)
GAC: volti
GAC dipinto da Higgins
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Guglielmo Achille Cavellini
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Copertina del catalogo
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PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
The original Joe Oppedisano
È bello parlare con Joe. Ha un italiano fluido, sicuro, tempi e congiuntivi al loro posto, e poi ha l’accento di quello che è cresciuto nel popoloso borough di Brooklyn, che se ti distrai un istante ti sembra di essere con Francis Ford Coppola sul set del Padrino.
Joe porta con sé un’esperienza sferica, che ingloba tutti i campi dello scibile fotografico. La sua italo-americanità è una seconda natura con una forza propria e una coscienza oggettiva del mondo, percepito come un suggeritore continuo, come un generoso fornitore d’istanti temporali e mentali, di bellezza e di emozioni. Joe nasce nel ’54 a Gioiosa Ionica, nella Locride, un paese bellissimo, terra d’olivi, assolata, lambita da un mare che riluce di trasparenze, miriadi di cristalli quieti, frammentati di turchesi e cobalto. Frammentati: quasi una premonizione. Non è certo l’Atlantico che vedrà otto anni dopo, oscuro e immenso, quando l’attraverserà con la famiglia per ricongiungersi al padre, già da tre anni a New York. Ma New York è una metropoli unica al mondo, è un altro grande oceano fatto d’opportunità e sollecitazioni verso le quali Joe Oppedisano mostra di avere una sensibilità caratteriale. In un quartiere come Brooklyn Joe cresce in fretta. A diciassette anni s’iscrive al Queens College, dove studia anche Francese e Spagnolo: vuole prepararsi bene, perché il suo più grande desiderio è viaggiare. Due anni dopo frequenta, sempre nella stessa Università, un corso di fotografia. A quel punto, esplode una passione che era già latente da tempo. Senza pensarci due volte s’iscrive alla School of Visual Arts of New York, dove diventa quasi subito assistente di un suo professore. Nemmeno un anno dopo affianca già i grandi fotografi pubblicitari, come Tony Petruccelli, Hal Davis, Ryszard Horowits e molti altri, grazie ai quali impara tutto quello che c’è da sapere sulla produzione fotografica e sulla sua gestione. Il 1976 è un anno determinante nella vita di Joe Oppedisano. L’Alitalia di New York gli commissiona un reportage da realizzare in Toscana. Il fotografo, appena ventunenne, parte con una cinquantina di persone, giornalisti di diverse testate, addetti ai lavori e qualche personaggio piuttosto importante: tra questi c’è Joe Di Maggio. Oppedisano si dimostra all’altezza dell’incarico. Purtroppo in quegli stessi giorni accade che un terremoto devasti la regione del Friuli Venezia Giulia, faccia un migliaio di vittime e lasci senza casa 45.000 persone. Tra i giornalisti ce n’è uno del “Philadelphia Herald” che vorrebbe recarsi sui luoghi della tragedia, ma non ha un fotografo e chiede a Joe se se la sente di rimandare il rientro negli States e di andare con lui. È un’altra occasione imperdibile, che fa parte del suo bagaglio di sogni; la vita del reporter è la vita vera, è la prima linea, è viaggio, rischio, adrenalina e Joe ha tutto quello che ci vuole, l’età, l’entusiasmo, l’energia e la preparazione tecnica. Una volta là, si accorge che gli manca un requisito, solo uno, ma indispensabile: il distacco. Joe, gli piaccia o no, si commuove, si fa coinvolgere emotivamente. “La prima cosa che mi veniva voglia di fare – racconta lui stesso – non era di scattare, era di mettere via la macchina fotografica e di aiutare le persone, di fare qualcosa per loro in senso pratico. Ho consumato cinque rullini in sette giorni; ridicolo. Un reporter li fa fuori in due ore.” Sicché Joe ha dovuto chiudere la porta su quella particolare via; non era la sua. In compenso, a New York, tutte le altre porte sono spalancate. Nel ’79 l’International Center of Photography di New York lo invita a partecipare a “Venezia ’79 – La Fotografia”, che era in quegli anni una delle rassegne d’arte fotografica più importanti a livello internazionale. Nella carriera di Joe Oppedisano questo è un altro momento significativo, che merita un minimo approfondimento. Joe ha in quel momento 25 anni e il direttore dell’International Center of Photography, la fondazione che lo inserisce come assistente nella kermesse veneziana, è Cornell Capa. Cornell faceva parte del gruppo Magnum, ovvero la Magnum Photos, una delle agenzie fotografiche più qualificate al mondo, fondata da Robert Capa nel 1947 e tuttora esistente. Robert, fratello maggiore di Cornell, è un “Mostro Sacro” del fotogiornalismo di guerra, reporter della guerra civile spagnola, dello sbarco anglo-americano in Sicilia, di quello in Normandia, e della prima guerra d’Indocina, dove muore nel 1954 tra la città di Hanoi e il delta del Fiume Rosso, in Vietnam, mettendo un piede sopra una mina antiuomo mentre è in procinto di fotografare lo stesso drappello di militari francesi con i quali si è allontanato dal convoglio durante una sosta di riposo. È infatti in memoria di Robert che Cornell fonda nel ’74 l’International Center of Photography, in origine sulla Quinta Avenue, all’altezza della novantaseiesima strada e oggi tra la Avenue of Americas e la quarantatreesima di Manhattan. L’attenzione del Center verso Joe, ragazzo con un solo quarto di secolo alle spalle, vale quanto un premio prestigioso o un diploma accademico. La fotografia pubblicitaria è ciò che lo appassiona di più: selezionare i casting, allestire le scene, inventare soluzioni tecniche, lo diverte. A partire dal 1982, inizia la vita che aveva sempre desiderato; sulla rotta Milano – New York, principalmente, e poi in giro per il mondo a realizzare servizi. È inviato dalla rivista americana “Attenzione”, ma successivamente lavora anche per riviste dei Gruppi Mondadori e Rizzoli. Firma inoltre campagne pubblicitarie per Adidas, Yomo, Pionier, Hitachi, Panasonic, Fujitsu, Grundig, Kodak, Apple, Maxell, Philip Morris, Parmalat, Lacoste, Peugeot, Fiat, Alfa Romeo, Iveco, Suzuki, Campari, RAS, INA, American Express e sì, suppongo che me ne sia sfuggita qualcuna, ma era solo per dare un’idea del livello qualitativo e d’affidabilità professionale raggiunto da Joe in un decennio di attvità fotografica. Questo appassionante lavoro gli garantisce una certa tranquillità economica, che gli consente di autofinanziare la propria ricerca artistica e di creare di volta in volta quelle che Lucrezia De Domizio Durini definisce le sue “Stazioni Concettuali”. Raggiunge molto in fretta il punto in cui si ha bisogno di violare il limite. I suoi occhi vedono tutto e tutto vorrebbero assorbire, tutto vorrebbero trattenere. Anche lo strumento, per quanto evoluto sia, si rivela insufficiente. Joe ha un’intuizione che implica una modifica nella meccanica della sua macchina fotografica, una Nikon FE che dopo l’intervento tecnico diventa unica al mondo. L’accorgimento consente a Joe di ottenere fotogrammi perfettamente congiunti, in un continuum d’immagini che eludono la cadenza strutturale della pellicola. Un primo miracolo accade già in camera oscura, quando i frammenti d’un paesaggio urbano restano impressi lungo le strisce di carta sensibile secondo una sequenza logica, come se Joe avesse affidato il riordino dei suoi scatti ad un caleidoscopio modificato anch’esso per essere funzionale allo scopo. Sono collage che non hanno bisogno di colla. Si tratta di affiancare le strisce, talvolta in orizzontale, molto più spesso in verticale, e la scena appare, ad una prima percezione, riflessa da tanti specchi affiancati l’uno all’altro sopra un piano irregolare, oscillante di pochi gradi. Si può giocare con i moduli, ottenendo risultati che paiono bizzarri, all’osservatore, senonché il solo modo di raggiungerli impone all’artista un atteggiamento profondamente analitico. Joe studia attentamente la sua preda, la seziona con gli occhi, si fissa nella memoria i particolari di riferimento, poi inizia a scattare. Sono, queste, le opere dette della decostruzione, un termine che ci sta, ma forse un po’ troppo frettolosamente scippato alla filosofia durante un flirt narcisista tra Jacques Derrida e l’Architettura. Preferirei chiamarla deframmentazione. Perché Joe Oppedisano non si pone il problema di detronizzare, nell’universo filosofico, la metafisica e il suo linguaggio, né ricerca un’architettura capace di trascendere il proprio ruolo, di sottomissione alla “cosa” umana. Semmai è il contrario. Semmai è l’architettura che va alla ricerca di Joe Oppedisano, sono il Guggenheim di New york, la casa di Marinetti a Milano, il Teatro Massimo di Palermo, che lo cercano, che gli chiedono di essere liberati dalla loro fissità museale e di prendere vita. Joe deframmenta esterni, interni, persone. Così, nascono anche ritratti straordinari. I suoi personaggi si ritrovano immersi nelle loro case, nei loro studi pieni di libri, dentro ambienti destrutturati e pulsanti, oppure si allungano sulla striscia di carta come accattivanti divinità totemiche. Sono le “Estensioni”, altra “Stazione Concettuale” di Joe Oppedisano. Il ritratto è un argomento approfondito sin dai tempi dell’università e dell’apprendistato, che trova in Joe, persona sensibile e comunicativa, un grande interprete. Alle Estensioni si affiancano, nella ritrattistica, gli Inner Self, sovrapposizioni ottenute tramite la doppia esposizione della stessa pellicola, reinserita nella macchina “a registro”. Inner Self, come dire “più addentro a sé stessi” o “nel proprio intimo”. Il profilo, ciò da cui non si sfugge, è la forma basica da cui scaturisce una seconda volta lo stesso volto, attraverso un’espressione particolare e caratterizzante. Certe volte il profilo ospita invece cose che si legano al medesimo attore, i suoi libri, i suoi attrezzi di lavoro. Sono davvero tante le “Stazioni” di Joe. Sono le sue Città, luoghi in cui ritorna periodicamente, per approfondire ancora. Non potrò esaurirle tutte in queste pagine, ma con Joe l’appuntamento è sempre valido, sempre aperto; ci torneremo, esattamente come fa lui. C’è un suo lavoro del ’96 che non posso fare a meno d’inserire in questo contesto, per una serie di motivi che mi legano all’immagine stessa; sono motivi d’affinità, di condivisione, di sentimenti e di paure. Si tatta di un polittico che Joe ha realizzato e composto in occasione de “La Tempesta” di William Shakespeare reinterpretata da Emilio Tadini (Edizioni Einaudi, per chi fosse interessato) e in scena, quell’anno, al Teatro Parenti di Milano. Il polittico, le cui componenti appartengono ad un ciclo di fotografie raccolte sotto il titolo di “Notti Milanesi”, non venne esposto per intero nel foyer del teatro, perché una parte di esso fu considerata troppo forte, troppo esplicita, sebbene attinente alla narrazione del dramma. È un grande affresco, è una storia struggente e piena di poesia. Qui il ritratto supera se stesso e si fa racconto, si fa romanzo di una vita intera e, forse, già compiuta. La ragazza è giovane. Bella e maledetta, come quel ginsberghiano “dragging themselves through the negro streets at dawn looking for an angry fix”. Non ha altre vene dove bucarsi e deve ricorrere alla giugulare anteriore, alla base del collo. Il flash sarà certamente più immediato, frazioni di secondo sottratte all’attesa. L’immagine centrale rivela solo di poco la sua bellezza fragile, un viso delicato e triste piegato sulla fiamma e un’espressione rassegnata, sconfitta. Sta solo preparando, non c’è ancora niente di fatto, eppure tutto è già intriso di consunzione. Porta una croce al collo. Ogni riquadro è un capitolo della sua storia, intenso, completo. Magari ce l’ha fatta, pensa Joe mentre mi racconta come l’ha conosciuta. Joe è un positivo, un possibilista. Sì, chiaro, ce l’auguriamo, che sia ancora viva. Devo fare uno sforzo per prendere le distanze da questa immagine. Joe Oppedisano è impegnativo. Per stargli dietro si deve imparare a saltare, di argomento in argomento, senza perdere il filo invisibile ma robusto che li collega tutti. Come quando omaggia a Jasper Johns un’American Flag (peraltro non quella dell’artista, ma un’altra) dalla quale le stelle si staccano, abbandonano il campo blu, quella monodimensione quieta, protettiva, e aggrediscono lo spazio esterno: un’attenzione critica e pur sempre affettuosa di Joe alla sua patria adottiva, amata e invadente. “American Flag” appartiene alla più recente serie di opere raccolte sotto il titolo comune di Straz’s, cioè Stratificazioni. Sono una festa per gli occhi, ma il fotografo, anche quando è liberamente artista, resta sempre un po’ reporter, interprete della storia, dei trascorsi, dei cambiamenti sociali in essere e di quelli vissuti, sui quali ancora c’interroghiamo. C’è in questi ultimi lavori una dimensione neo-futurista appropriata ai tempi, una dimensione tecnologica d’informazione caotica, costretta a tenere il passo con un metronomo la cui lente è scesa da tempo sotto la frequenza 208 al minuto primo. Non c’è modo d’incidere altre tacche alla base dell’asta. Ecco perché nel favoloso mondo delle arti visive la fotografia avrà sempre più importanza. Anche quand’è fantastica, innovativa, surreale, avulsa, ma solo apparentemente, da ogni possibile riferimento nel mondo sensibile, essa domina la memoria, perché cattura quello che, sia pure di un non nulla, è già perduto. P.B. Brescia, 2014 Joe Oppedisano: Letteratura (2013)
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Joe Oppedisano (foto di Fabrizio Martinelli 2014)
Joe Oppedisano: Friuli 1976
Joe Oppedisano: Friuli 1976
Joe Oppedisano: Venezia '79
Joe Oppedisano: Soho, New York (1991)
Joe Oppedisano: Philipp Morris - Car (1997)
Joe Oppedisano: New York, Mid Town (2011)
Joe Oppedisano: Estensioni - (Da sin.) Stefano Rodotà, Mauro Pagani, George Benson, Andrea Zanotto, James Thompson, Silvia Dal Borgo, Moni Ovadia, Flavio Piras.
Joe Oppedisano: Mimmo Rotella (1997)
Joe Oppedisano: Michelangelo Pistoletto (2000)
Joe Oppedisano: Biennale (2011)
Joe Oppedisano: Jasper Johns American Flag (2013)
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