PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
Da Lavarone
|
PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
Burri, Corrao e il Cretto di Gibellina
Ci sono voluti trent’anni, ma in fondo l’opera è un gesto, anche solo un pensiero.
Quella di cui parliamo ha la potenza di un vulcano pietoso che ricopre il paese sotto il suo velo bianco e lo pietrifica soltanto dopo che la morte è passata. Ci voleva uno come Alberto Burri, uno che fosse medico e artista, che sapesse curare le ferite nei corpi come nelle anime. Ne scrivo oggi, perché oggi s’inaugura a Gibellina Vecchia il Grande Cretto, a dieci anni dalla scomparsa del Maestro, a cento dalla sua nascita, a quarantasette dal terremoto che rase al suolo il paese. Fu un anno terribile per la Sicilia. Il 14 Gennaio del 1968 cominciarono le prime scosse. Non ci furono crolli immediati, ma la gente si convinse che sarebbe stato meglio dormire all’aperto, e fu un bene. La notte stessa una scossa violentissima si accanì sulla Valle del Belice e demolì in pochi istanti Gibellina, Salaparuta, Santa Ninfa, Montevago, Partanna, Poggioreale e Santa Margherita di Belice, nelle province di Trapani e Agrigento. La terra non smise mai di tremare, ma ne sembrava stanca, finché il 25 Gennaio un’altra scossa terribile fece del male anche a Sciacca e a Palermo. L’attività sismica perdurò senza fare danni troppo gravi per un anno intero e si placò soltanto nel mese di Febbraio del 1969. Un totale di duecentonovantasei morti, secondo i dati della Protezione Civile. Inoltre si contarono un migliaio di feriti e settantamila sfollati. Gibellina non c’era più, né sarebbe potuta risorgere vicino a se stessa. Le sole aree edificabili intorno al paese appartenevano ai fratelli Ignazio e Nino Salvo; i costi salivano ad ogni più lieve fremito della terra e allora, questa volta no, stavolta non era cosa. Benché fosse stato anch’esso gravemente danneggiato dal terremoto, il comune di Salemi donò a quello di Gibellina i territori pianeggianti siti in contrada Salinella, così si potè ricostruire una Gibellina Nuova a venti chilometri di distanza dalle sue ceneri. Però ci volle anche un sindaco come Ludovico Corrao, per imprimere nella geografia dolorosa dei luoghi i segni capaci di essere la memoria stessa degli avvenimenti. Chiamò a sé molti artisti, architetti, scultori, pittori, che contribuirono con le loro opere alla ricostruzione della nuova cittadina . Per motivi di tempo e di spazio ne cito alcuni e chiedo scusa agli altri: arrivarono Carla Accardi, Nanda Vigo, Mimmo Rotella, Ettore Colla, Costas Varotsos, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino, Pietro Consagra, Alessandro Mendini, Ludovico Quaroni, Franco Purini, Giuseppe Spagnulo, Gino Severini, Emilio Isgrò, Elio Marchegiani, Alberto e Giuseppe Samonà, Vittorio Gregotti, tutti gli altri; c’è una ricca letteratura per ognuno di loro. Alberto Burri fu il solo che si rifiutò d’intervenire nella città nuova per dedicarsi alle spoglie di quella vecchia. Ludovico Corrao glielo permise e ne fu felice.. Era, quest'ultimo, un signore colto, intelligente, eccentrico, coraggioso e ricco di passioni, nel bene e nel male, inclusa quella che forse, ma non certamente, fu la causa della sua morte violenta, avvenuta il 7 Agosto 2011 per mano di un giovane bengalese alle sue dipendenze. Uomo politico e di cultura, fondatore nel 1981 delle Orestiadi di Gibellina, Festival internazionale che tutt’oggi si svolge durante la stagione estiva, Ludovico Corrao fu anche un bravo avvocato. Mi piace, e mi commuove, ricordarlo come il legale di Franca Viola. Una donna fiera e coraggiosa come lei, che sfidò l’anima peggiore della Sicilia negli anni Sessanta, e che la vinse, non avrebbe potuto trovare un difensore migliore. Anche le vicende di Francesca Viola, detta Franca, sono ampiamente documentate e rintracciabili. Invito a leggerle. Qui tento una sintesi difficile. All’epoca del fatti, il 1965, Franca è una bella ragazza di diciotto anni, perciò ancora minorenne. Da tre anni è fidanzata con Filippo Melodia, nipote di Vincenzo Rimi, capo della cosca mafiosa di Cosa Nostra nel mandamento di Alcamo. Quando anche il giovane si rivela dedito al crimine Franca, con l’aiuto del padre, tenta di sciogliere il fidanzamento e ne paga le conseguenze fino al rapimento, alla violenza carnale e alla segregazione per otto giorni, allo scadere dei quali la famiglia di Filippo convoca Bernardo Viola, padre di Franca, per la “paciata”, al fine di mettere una pietra sopra all’incidente e passare con serenità al “matrimonio riparatore”. Bernardo Viola è però un padre degno di sua figlia: d’accordo con la polizia, accetta la proposta, si reca all’incontro e fa arrestare il colpevole insieme ad una dozzina di complici. Durante il processo, la difesa di Filippo Melodia cerca di fare ricadere la colpa più sulla vittima che sul carnefice, punta sulla “fuitina” cioè la scappatella, quel fatto assai comune in cui la femmina, anche se comprensibilmente si vergogna di ammetterlo, è sempre complice e talvolta istigatrice. Una tesi facile e vincente; siamo nel 1966, la legge è clemente su certe questioni di cuore e grazie al suo brillante articolo 544 del Codice Penale estingue il reato di violenza carnale, anche su minori, qualora le parti siano disposte a contrarre il cosiddetto “matrimonio riparatore”. Va detto, inoltre, che per la legge italiana lo stupro non è un reato contro la persona, ma contro la morale. La violenza subita da Franca non è cioè un’offesa alla sua persona e al suo corpo, ma un’offesa alla moralità di quanti, in terra d’Alcamo come altrove, siano stati costretti, loro malgrado, a sapere di tali fatti, a sentirne parlare, a doverne leggere, ad udirne l’eco! Nell’Italia della Vergogna, oggi più di ieri governata dall’idiozia, lo stupro sarà legalmente riconosciuto come un reato contro la persona e non più contro la morale, soltanto nel 1996. Solo che Francesca Viola non ha paura e tiene la testa alta. È forte del suo coraggio, ha una famiglia che non si fa intimidire e ha in Ludovico Corrao un difensore che agli avversari non concede niente. A fine processo Filippo Melodia è riconosciuto colpevole e sconta dieci anni in carcere. Nel ’76 esce, nel ’78 muore di lupara. Nel frattempo Francesca Viola è già un esempio per tutte le sue conterranee, la sua storia infonde coraggio e orgoglio ad un mondo femminile sempre meno fragile, poi va avanti, passa lo stretto, invade il continente, informa di sé il Sessantotto, diventa un simbolo, ispira i Movimenti Femministi, le loro guerrigliere e le loro intellettuali. Ispira anche Damiano Damiani che nel 1970 gira “La moglie più bella” e affida a Ornella Muti l’interpretazione di Francesca (nel film non più Francesca Viola, ma Francesca Cimarosa). Oggi Franca ha soltanto sessantotto anni ed è tra noi, mentre Ludovico Corrao, Alberto Burri, i morti di Gibellina e presumibilmente tutte le anime della Valle del Belice affollano il Grande Cretto per la sua inaugurazione, non viste, nemmeno percepite da quanti, chiusi dentro le loro vite, stanno avvolti negli abiti da cerimonia e si ubriacano di parole petulanti, lacrimose, piene di compianto e di autocompiacimento. Il Cretto invece avverte quelle anime. Le sa. Bisogna aggirarsi nei suoi vicoli da soli, per sentirle. Il Cretto è una Pompei che non vuole mettere in luce la parte leziosa delle sue vestigia, è una Ilion che non intende attestarsi su di un undicesimo strato. Il Grande Cretto è un limbo elegante in cui si può andare e venire in libertà, con o senza un corpo, di qua o di là da una porta eterna. Si può sostare nel suo biancore o lasciarlo, si può fare di tutto tranne che dimenticarlo. È questa la memoria stessa di Gibellina. P.B. 17 Ottobre 2015, ore 17,00 |
Grande Cretto di Gibellina
Alberto Burri
Ludovico Corrao
Franca Viola
Il Grande Cretto
|
Ornella Muti in "La moglie più bella"
Gibellina dopo il terremoto del '68
PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
Di chi sia la bellezza
“VENEZIA SALVA” di Serena Nono
Dobbiamo spostarci a Venezia: è importante. Serena è al suo terzo film, con il quale è presente alla 70ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Pochi giorni fa le è stato conferito il Premio OPEN, quest’anno materialmente realizzato da Marco Nereo Rotelli. Il premio, oggi alla sua 13ª edizione, nacque nel 2000 da un’idea di Paolo De Grandis e Pierre Restany, in concomitanza con OPEN, l’Esposizione Internazionale di Sculture ed Installazioni che a quel tempo replicava per la terza volta. L’intento di tale istituzione era ed è quello di premiare un regista partecipante alla Mostra Cinematografica di Venezia che attraverso la sua opera riveli una sensibilità propria ed inedita nell’indagare le forme d’interazione tra l’arte e il cinema. Il soggetto del film di Serena è liberamente tratto dall’omonima tragedia di Simone Weil, straordinaria filosofa e scrittrice dalla vita tanto intensa quanto breve, e della cui produzione letteraria si prese personalmente cura Albert Camus. Nel film si racconta del tentato sacco ai danni di Venezia da parte della Spagna, nel 1618. Jaffier, l’ufficiale che dovrebbe guidare la congiura, s’innamora di Violetta, figlia del Segretario dei Dieci (David Riondino). All’amore per lei si aggiunge la malia di una città dalla bellezza non paragonabile. Schiacciato dal peso della colpa per l’azione progettata, Jaffier fa fallire la congiura salvando Venezia e la sua gente. Per quel gesto pagherà, né sarà il solo, il prezzo più elevato. Paolo – Ciao Serena e, ancora una volta, brava! La prima domanda che vorrei farti riguarda il tuo cast “privilegiato", per modo di dire, gente autentica e nella vita reale tutt’altro che privilegiata: gli ospiti della Fondazione*. Nei tuoi due film precedenti si esprimevano liberamente. Qui, da quanto ho letto nelle tue note, hai dovuto faticare un po' di più. Una scelta impegnativa e sempre efficace, in senso sociologico. Lo fu per Pasolini e lo è stato anche per il "nostro" Gian Butturini: era un atto politico, faceva parte della lotta di classe, combattuta e dibattuta con le armi e il linguaggio di un cinema colto. E' così anche per te? O c'è più d'un motivo? Perché è chiaro che tra gli Ospiti e te c'è un rapporto forte di sentimenti: ti ho conosciuta in quei contesti, proprio con Via della Croce.Te ne fai, per così dire, un punto d'onore? Serena – Ciao Paolo. Beh, più che un punto d’onore è una collaborazione con la Casa dell’ospitalità consolidata negli anni. Ho cominciato a frequentare alcuni ospiti e operatori dal 2006 e realizzato con loro due film, ma non solo: anche alcune mostre di oggetti d’arte aiutando l’operatrice Ana Reque e organizzando altre occasioni di incontri. In quell’ambiente mi sono trovata bene con tutti, compresi il presidente Giovanni Benzoni, gli operatori, l’ex direttore Nerio Comisso e il direttore attuale Andrea Gabrieli, e su un testo di Simone Weil abbiamo concentrato l’ultimo lavoro: Venezia salva. Questo laboratorio Venezia salva, nato in ambito della Casa dell’Ospitalità, si è aperto a molte altre persone, amici non attori, italiani e stranieri che hanno collaborato, recitato e preso parte al film, per cui tutti si confrontavano per la prima volta con un testo teatrale e non con un documentario, cioè dovevano uscire da loro stessi per creare una interpretazione collettiva e personale al contempo. David Riondino è l’unico attore professionista che recita nel film e ci ha aiutato durante le prove. E’ stato un lavoro molto bello. Paolo – Anche il risultato lo è. Il tema centrale del tuo film è lo sradicamento: un tema centrale anche al mondo. Il processo di globalizzazione è il frutto di un'economia violenta che con i luoghi geografici non ha legami, solo mire di sfruttamento e profitto. Spaesa i popoli, li sradica lasciandoli dove sono o li costringe ad emigrare. Come hai reso leggibile questo fenomeno nel tuo film? Serena – Come ti dicevo, nel film ci sono molti stranieri di varia provenienza, di molte nazionalità. Così mi figuro i mercenari e ufficiali che presero parte alla congiura di Bedmar, con una parlata, non una recitazione, spontanea, a volte scorretta, reale. Quando i mercenari arabi urlano le loro ragioni di fedeltà alla Spagna, e parlano di aver subito violenza nel loro paese, grazie a guerre sanguinarie, non possiamo non pensare ai rifugiati di oggi che continuano ad arrivare sulle nostre coste. Ma anche Violetta, che rappresenta Venezia, ha un accento non veneziano, essendo russa, il segretario dei Dieci , autorità che rappresenta il governo di Venezia in questa pièce ha cadenza fiorentina, la duchessa d’Osuna che dovrebbe essere spagnola è francese, e Jaffier, rumeno, ha imparato a memoria in italiano monologhi su monologhi di un capitano provenzale. Perciò accenti e cadenze scombinati, che interrogano. Compresenze. E’ un testo, questo, che se recitato in modo virtuoso diventa faticoso, cioè ha bisogno di verità, di dissonanza, di ruvidezza. Detto questo l’idea nel film è che sia una pièce che parte da un teatro ed esce nella città, perciò non vuole essere realistico, resta teatrale ma contemporaneo nei suoni. Paolo – E poi c’è la bellezza. La bellezza, più che l'amore. Sembra che i sentimenti tra Violetta e Jaffier, per quanto intensi, possano meno della bellezza ammaliante che sprigiona la città. Una divinità distante. Puoi aggredirne le architetture, ma lei resta intoccabile come l'assioma che rappresenta: è il canone perfetto. Mi sembra d'intuire questo: che ora la sua bellezza ci è data, ma non ci appartiene. E' così? Il magnate russo di turno potrebbe comprarne i muri, ma non potrà mai possedere la sua bellezza? Riguarda solo Venezia, o la bellezza tutta, come virtù assoluta? Serena - Credo che la congiuntura giusta sia l’amore con la bellezza. Violetta rappresenta quella Venezia che Jaffier idealizza, la cui bellezza gli fa confessare la congiura. Bellezza anche non catturabile, altra, sovrannaturale: “Senza il mio sguardo, quale bellezza la città…”. L’amore come una grazia permette a Jaffier di vedere la bellezza. La sua conversione è data dall’amore che egli ha, d’un tratto, per la città, le sue pietre, la sua natura, ma anche per i suoi abitanti, per la vita che la rende “città ideale”. L’evoluzione di violenza, che si concretizzerebbe nel sacco della città, è arrestata da questo improvviso aprire gli occhi ed il cuore del protagonista a ciò che ha attorno, si accorge di ciò che lo circonda. Malgrado la bontà di questa conversione, che salva la città, egli ha un destino infausto, e qui è la tragedia. Non sempre le scelte ispirate dalla bontà e dalla bellezza, toccate dalla grazia, perciò, sono comode, e non necessariamente vengono premiate. Paolo - Guardando i tuoi quadri ho l'impressione di essere nello studio di una pittrice neoespressionista, che forse ha amato Egon Shiele e che ha di quel poco smussato gli spigoli ai ragazzi del gruppo di Dresda. È una pittura potente e inquieta, introversa e umorale. Sei così davvero? Anche quando guardi attraverso l'occhio della tua telecamera? Serena - Inquieta e umorale sempre, senz’altro! Paolo – Grazie per il tuo terzo film, Serena. A presto! Anzi, al quarto! Serena – Al quarto! Venezia, Settembre 2013 |
Serena Nono sul set di VENEZIA SALVA
Venezia, le Mura
Una scena del film
Violetta, protagonista di VENEZIA SALVA
Luci e tonalità caravaggesche in una scena del film
Scena del film
Scena del film
Locandina di VENEZIA SALVA
Serena Nono nel suo studio
|